I due dittatori

di Aldo Tortorella - ilmanifestoinrete.it - 07/02/2025
E’ venuto a mancare Aldo Tortorella, Presidente onorario dell’ARS Associazione per il rinnovamento della sinistra e direttore di Critica Marxista, è stato per tutta la vita figura di spicco del PCI, in particolare durante la segreteria di Enrico Berlinguer.

E’ venuto a mancare Aldo Tortorella, Presidente onorario dell’ARS Associazione per il rinnovamento della sinistra e direttore di Critica Marxista, è stato per tutta la vita figura di spicco del PCI, in particolare durante la segreteria di Enrico Berlinguer. Dopo la fine del PCI, non ha mai smesso il suo impegno culturale e politico, in particolare nel rilancio di Critica, qui il suo splendido editoriale, nell’ultimo numero di dicembre 2024. Si potrà salutare Aldo Tortorella domani dalle 10 alle 17 Camera ardente preso la sala Aldo Moro della Camera dei deputati ed alle esequie sabato alle ore 11 al Tempietto Egizio al Verano

La mera esecrazione della tendenza verso la destra più pericolosa che si diffonde nel mondo non serve a niente, così come non serve indorare l’amara pillola. Non è semplice cercare di capire bene quello che succede, se si vogliono scartare spiegazioni frettolose. Perciò abbiamo costruito questo numero con articoli di autrici e autori che direttamente o indirettamente si riferiscono a questa svolta che non riguarda solo gli Stati uniti e rappresenta, dal punto di vista economico, l’estremo sconquasso neoliberistico che ha bisogno di un corrispondente regime politico.

La vittoria negli Stati Uniti del nazionalismo condito di violenza e degli algoritmi informatici usati come clava, incarnati dal duetto Trump-Musk, è cosa certamente nuova pure se ha sapore di vecchiume. Infatti, a sentire un paio di titolatissimi generali americani, Trump è da ritenersi un fascista, ed è ben certo che non possano essere considerati pericolosi uomini di sinistra i generali Mark Milley, che ha definito Trump un «fascista totale», e John Kelly, che ha detto che Trump rientra a pieno titolo nella «definizione di fascista». Kelly fu, addirittura, quasi un intimo del presidente Trump che, appena eletto la prima volta, lo nominò Segretario alla sicurezza interna e un anno dopo Capo di gabinetto della Presidenza, carica da cui si dimise nel 2019. E Milley è stato Capo di stato maggiore dell’esercito statunitense dal 2015 al 2019 e poi Capo degli stati maggiori riuniti, cioè di tutte le forze armate statunitensi, dal 2019 al 2023 – e per quattro anni queste delicate e pericolose funzioni coincisero con la prima presidenza Trump. Si tratta, come si vede, di persone bene informate. Ma è opportuno vedere se ci sia e quale sia la differenza tra il nuovo presidente nordamericano visto come dittatore e i suoi supposti predecessori europei del secolo passato, il tedesco e l’italiano, promotori perdenti della Seconda guerra mondiale e delle sue infamie, la maggiore delle quali fu il genocidio degli ebrei.

In effetti i toni della campagna elettorale del duetto hanno esibito un modo di pensare che richiama accenti ben noti ai pochi rimasti di quei tempi lontani oppure ai non moltissimi che li hanno studiati. Non più una predicazione democratica ma l’avversario indicato come il nemico da distruggere, non “il mio partito e il popolo” ma “io e il popolo”, anzi “io sono il popolo”, e “io non sono un politico”, basta con i politici che ingrassano mentre il popolo soffre, basta con lo straniero che ci sfrutta, prima di ogni altra cosa veniamo noi, nazione, America che io farò grande. L’assalto al “parlamento degli imbroglioni” non era reato ma patriottismo. Né manca la allusione a un eventuale uso della forza, se fosse necessario, per affermare la propria “missione” (ovviamente voluta da Dio, che lo ha salvato dall’attentatore). Il razzismo si esprime nell’odio agli immigrati irregolari (14 milioni di esseri umani da cacciare tutti, anche con l’esercito) e nel disprezzo per lo straniero cinese e altri, ma rimane solo un retro pensiero non detto sulla superiorità dei bianchi rispetto alle molte etnie poco o molto colorate interne alla cittadinanza. E manca, naturalmente, l’antisemitismo sebbene sia vivo il consenso e l’amicizia per chi come Netanyahu è autore di imprese sterminatrici che hanno generato un massimo di impopolarità per il proprio paese. Il suicidio di Israele, come ha scritto Anna Foa.

Gli accenti antichi, però, si sposano ora con la modernità degli algoritmi elettronici e con il liberismo selvaggio in luogo dello statalismo fascista. Dalla radio come unico mezzo di diffusione universale dei dittatori novecenteschi si è passati alle piattaforme informatiche che sanno tutto di ciascuno di noi, controllano e orientano i voti. E Trump può contare sull’uso di molte di esse da parte dei suoi adepti e in pieno su quella del socio Musk. Il quale è oggetto di ammirazione popolare e quasi di culto come “l’uomo più ricco del mondo” oppure come il «più grande genio» (dice Trump) e sicuramente ottimo uomo d’affari in quanto fornitore a suon di miliardi dello Stato americano e degli Stati di mezzo mondo (ora si avvicina anche alla povera Italia, essendo amico della sua diletta presidente del Consiglio). Un ottimo finanziere: 150 milioni investiti nella campagna elettorale trumpiana si sono trasformati dopo il risultato elettorale in 50 miliardi di dollari di aumento per le azioni delle sue imprese, una pacchia. E ha concepito sin qui lo Stato come bancomat e ora lo vede come banca conquistata. Sarà consigliere del presidente – o, come già si vede, viceversa –, comunque un esempio stellare, dato il tipo cosmico, di uno stratosferico conflitto di interessi dalle perverse conclusioni. E non fa mistero della sua propensione per la dottrina del “governo dei migliori” (di nobile origine platonica ma non perciò meno reazionaria), cioè il superamento delle tentazioni libertarie, egualitarie e solidaristiche presenti nelle forme democratiche. Intanto, come ministro degli esteri ombra, inizia la sua attività chiedendo di cacciare i magistrati italiani che hanno ai suoi occhi imperiali il terribile torto di applicare a proposito di immigrazione le leggi italiane ed europee. Ha dovuto rispondere il presidente della Repubblica, ma è solo un saggio di quel che farà il duetto. Un emblema del divorzio del grande capitale dalla democrazia e del disprezzo di qualunque regola. Il che non è una novità da parte dei governi Usa, che però prima, cercando di nasconderlo, almeno fingevano il rispetto delle norme del diritto.

Tuttavia, alcuni fedeli ammiratori del sistema politico americano ci informano che nonostante Trump abbia la maggioranza nei due rami del parlamento e nella corte suprema si può contare su altri contrappesi: forse l’apparato pubblico federale, forse le organizzazioni della società civile, forse altro. E poi, si aggiunge, ci saranno le elezioni di mezzo termine che possono cambiare maggioranze. Sulla validità e la funzionalità di questi contrappesi si potrà giudicare tra breve. Per ora conta la piena ripresa di idee e disvalori dittatoriali, che si pensò fossero sconfitti per sempre, ora posti al servizio del grande capitale monopolistico delle piattaforme e di ogni altro tipo. Una ripresa che avviene questa volta in una assai consistente maggioranza di americani e cioè non più in un paese marginale come l’Italia e poi in un paese, la Germania, tornato militarmente forte in Europa ma debole nel mondo. Ora il duetto dittatoriale sta alla guida del paese attualmente più ricco e più armato del mondo con le sue basi militari ricche di atomiche collocate in ogni continente. Si può obiettare che in una elezione ove si tratta di scegliere tra persone si vota prima di tutto contro la persona sgradita e che dunque si deve tenere conto di tutti i pasticci combinati da Biden e dai democratici, della diffidenza di molti retrogradi verso una donna per una così alta funzione, della relativa scarsa popolarità della candidata prescelta e di altre considerazioni di questa natura attinenti alla conduzione della campagna elettorale.

Ma tutte queste ragioni, certamente importanti, nulla tolgono al fatto che anche a molti potenziali elettori del partito democratico appartenenti alle classi sociali subalterne non ha fatto alcuna impressione dare il proprio consenso a una persona che ha chiesto il voto non contro il tentativo di colpo di Stato, ma sostenendolo e minacciando di rifarlo se fosse stato sconfitto, e che ha adoperato un linguaggio da potenziale dittatore. Al contrario, è proprio questo che è piaciuto, come hanno spiegato molti osservatori. Vi è qui la testimonianza della crisi ormai non più occultabile della liberaldemocrazia o, meglio, è la prova che l’uso fattone da quella parte del capitale fin qui egemone, ivi compresa la globalizzazione capitalistica, ha arricchito parecchio i già ricchi ma ha deluso moltissimi delle classi subalterne, compresi tanti che hanno scelto l’astensione e tanti altri che non votano il potenziale dittatore non perché siano appagati dallo stato delle cose, ma solo perché temono il peggio. E questa crisi spinge non la persona di Trump (che in inglese vuol dire “la matta”, il jolly del gioco delle carte), ma un vasto settore del capitale, ora visibilmente incarnato da Musk, a sposare il populismo per tornare a sistemi autoritari che confermino il loro dominio sui subalterni.

Sarebbe un errore, però, se si pensasse che i successi della mescolanza di nuovo e di vecchio propria di questa destra estrema non rappresenti anche l’affermazione di una visione della società: retriva quanto si vuole, ma che parla anche a “quelli che rimangono indietro”, come diceva Berlusconi. E rappresenta una rilevante sconfitta culturale del prevalere tra i partiti o i gruppi che si ritengono progressisti di uno scivolamento verso i luoghi comuni del “si governa dal centro”, e della “morte delle ideologie”, che fu definita da Norberto Bobbio, per chi non volesse ascoltare Gramsci, la peggiore tra le ideologie. Vi è stata tra i progressisti, nei casi migliori, la propensione verso una sorta di autolimitazione alla affermazione di diritti civili sacrosanti, ma nella cecità verso le peggiorate condizioni di vita dei lavoratori e della parte non abbiente del ceto medio, e nella ignoranza verso la tragedia dei diseredati, dei milioni di persone in povertà assoluta. La modernità confusa con il neoliberismo, qualsiasi critica al modello capitalistico trasformato dalla rivoluzione digitale considerata vecchiume o pericoloso vaneggiamento, al massimo la speranza che con qualche ritocco il modello capitalistico avrebbe superato i suoi limiti.

La profezia di Rosa Luxemburg, “socialismo o barbarie”, venne considerata la ubbia novecentesca di un’anima generosa e sognatrice. Fallito il consiliarismo russo, soppiantato dal partito-stato, alla fine morto per tragedie terribili e per consunzione (ancora il verificarsi di una previsione fatta da Luxemburg dopo la soppressione del pluralismo politico), il socialismo è stato dato per defunto meno che nella versione addetta a migliorare il sistema dato. Abrogato ogni sforzo di pensare una possibile trasformazione sociale costruendo anche politiche utili alla maggioranza sfruttata, non c’è da meravigliarsi se vince il più violento e il più ricco, la barbarie, appunto. È una lezione ovvia e penosa. Bisogna sperare e agire perché ritorni la volontà di cercare ancora le vie per usare le conquiste della intelligenza collettiva per il bene comune e non come strumenti di arricchimento dei pochi e del loro dominio. Ripensando il socialismo contro la barbarie.

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