Votare nel 2022 o nel 2023 fa differenza, ma la differenza più importante la fa la legge elettorale con la quale si vota. Eppure le forze politiche rappresentate in questo parlamento fanno finta di non saperlo. E quale che sia la loro preferenza, proporzionale, maggioritario o misto, sembrano interessate soprattutto ad escludere gli elettori da un voto libero e personale, come richiedono l’articolo 48 della Costituzione e i principi affermati con la “storica” sentenza della Corte costituzionale numero 1 del 2014 (incostituzionalità del Porcellum).
I candidati delle liste bloccate non possono essere liberamente scelti, e nemmeno quelli dei collegi uninominali che devono a pena di nullità essere quelli proposti dalle coalizioni. Coalizioni peraltro che non hanno un capo politico unico (questo è un bene per salvaguardare le prerogative del presidente della Repubblica) e neppure un programma di governo comune. Così ha voluto il Rosatellum, e non si capisce perché le coalizioni debbano essere favorite rispetto alle liste non coalizzate, che per essere contate devono avere almeno il 3% nazionale (anche al senato, malgrado la Costituzione preveda la base regionale della sua elezione).
Le liste coalizzate, invece, basta che raggiungano l’1%: il voto non è più uguale in entrata e men che meno in uscita. Pensate ai risultati 2018 a confronto di LeU (voti 991.159, 3,28% )e Südtiroler Volkspartei ( voti 128.282, 0,42% ): al senato LeU conquista 4 seggi, invece di 10, mentre la SVP ne elegge 3, invece di 1. Questo malgrado l’articolo 3 primo comma della Costituzione per il quale «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Le minoranze politiche dovrebbero avere lo stesso trattamento delle minoranze linguistiche. Conclusione: il voto non è neppure uguale.
Per due volte il premio di maggioranza è stato annullato dalla Corte costituzionale, la prima volta perché non c’era una soglia minima in voti o seggi, la seconda perché il ballottaggio tra le prime due liste era una distorsione non giustificata. Ebbene, apparentemente nel Rosatellum non c’è premio di maggioranza, ma grazie al voto congiunto obbligatorio a pena di nullità tra seggi uninominali maggioritari e liste proporzionali a una coalizione non serve nemmeno raggiungere il 40% dei voti validi per avere il 55% dei seggi, ma con il 30-35% omogeneamente distribuito si può conquistare la maggioranza assoluta del parlamento in seduta comune, l’organo che con 58 delegati regionali aggiuntivi elegge il presidente della Repubblica e lo può mettere in stato d’accusa.
Tra il 22 gennaio 2022 e il 21 dicembre 2024 scadono otto giudici costituzionali, la maggioranza assoluta del collegio di 15 giudici. Degli 8 giudici, Giancarlo Coraggio, Giuliano Amato, Silvana Sciarra, Daria de Pretis, Nicolò Zanon, Franco Modugno, Augusto Antonio Barbera e Giulio Prosperetti, uno solo è di nomina della magistratura: tre sono di nomina del prossimo presidente della Repubblica e quattro del parlamento in seduta comune, sia che sia eletto per il quinquennio 2022-27 o 2023-28. Se il presidente della Repubblica e la futura maggioranza parlamentare fossero politicamente omogenei, non ci sarebbero più organi di garanzia indipendenti.
La battaglia per una nuova legge elettorale è quindi prioritaria, ma questa elementare verità non viene percepita. Senza mobilitazione politica e delle coscienze democratiche i migliori ricorsi non scuoteranno i giudici e la loro sensibilità costituzionale.
Il governo Draghi non è responsabile della legge elettorali, quindi dovrebbe decidere di orientare l’avvocatura dello Stato con indicazioni diverse dall’opposizione ad oltranza al rinvio in Corte costituzionale che diedero i governi Renzi, Gentiloni e Conte.
C’è un’esigenza di trasparenza nei confronti dei cittadini, cioè del popolo sovrano.