Meloni urla sui giudici e punta al premierato

di Massimo Villone - Ilfattoquotidiano.it - 31/10/2025
Il voto sulla magistratura potrà essere la sola occasione in cui il popolo sovrano avrà diritto di parola, con una valenza che di fatto va ben oltre qualche migliaio di magistrati, per toccare l’architettura istituzionale. È su questo che Meloni cerca l’investitura plebiscitaria

Un dato particolarmente significativo nelle ultime tumultuose ore è l’attacco di Giorgia Meloni alla Corte dei conti per il Ponte sullo Stretto. La presidente accusa la magistratura contabile di politicizzazione, e la irride citando una (supposta) censura per la trasmissione di documenti mediante link. La decisione della Corte è una “intollerabile invadenza”. Colpisce che l’attacco non era affatto necessario. Bastava dire che il governo avrebbe comunque superato il diniego attraverso una “registrazione con riserva”. Si poteva dichiarare una facile vittoria sui nemici, spostando la questione dal piano della responsabilità giuridica a quello della responsabilità politica. La domanda è: quale vantaggio ci si aspetta dalla guerra verbale?

C’è un filo rosso che lega le intemperanze di Meloni, ed è il messaggio che non sono tollerabili gli ostacoli all’azione di chi è investito di un mandato popolare come il governo, in qualunque modo e da chiunque frapposti. Anche dal sindacato, quando organizza uno sciopero politico, o dalla società civile, quando gremisce le piazze in dissenso con la politica governativa. Ma in primo luogo dai magistrati: civili, penali, amministrativi, contabili. L’“intollerabile invadenza” sarà un mantra nella campagna referendaria. Voci da destra chiedono di non politicizzare il voto. Ma Giorgia Meloni lo fa in prima persona. Perché? Lo suggerisce la tempistica. Voteremo nella primavera del 2026, e per mesi saremo martellati dalla “intollerabile invadenza”. Si punta a una investitura plebiscitaria. Una conferma si trae dal fatto che anche la destra chiederà il voto popolare. Ma investitura per cosa? Consideriamo che saranno in corso i lavori parlamentari per la nuova legge elettorale. E sul premier espressione diretta del popolo si potrà bene spendere l’esito del voto referendario. Qui vediamo arrivare il filo rosso delle invettive di Meloni. Quattro i punti fondamentali.

Il primo. Non è necessaria una specifica riforma costituzionale per conferire al premier un sostanziale mandato popolare. Basta la legge elettorale, che bene può prefigurare il capo del governo, solo evitando la previsione di una formale candidatura alla carica di primo ministro. La nomina da parte del Capo dello Stato del premier vincente sarebbe comunque un atto dovuto. Già il Porcellum (legge 270/2005) configurava di fatto una elezione diretta del capo della coalizione, con un solo ipocrita caveat: “Restano ferme le prerogative spettanti al Presidente della Repubblica previste dall’articolo 92, secondo comma, della Costituzione” (art. 1.5).

Il secondo. Il Meloni-pensiero sulla legge elettorale (a quanto sappiamo, proporzionale, premio di maggioranza al 55% con soglia al 40%, liste parzialmente bloccate sui soli capilista) passa tra le maglie (troppo) larghe delle due principali sentenze della Consulta (1/2014 e 35/2017). Giuristi e costituzionalisti potranno in coro affidarsi alla Corte. Ma a meno di un significativo cambio di rotta giurisprudenziale, non prevedibile con quella che abbiamo, rimarranno inascoltati. Il terzo. Una maggioranza parlamentare garantita e asservita consente a chi governa di incidere decisivamente, senza ulteriori riforme, sull’elezione del Capo dello Stato, sulla composizione della Corte costituzionale, sugli organi (un tempo) definiti di autogoverno della magistratura anche – e ancor più – nella forma oggi ridisegnata, sulla composizione di alcune autorità indipendenti.

Il quarto. Secondo la Consulta, un referendum abrogativo totale è inammissibile per la legge elettorale. Anche il referendum abrogativo parziale incontra forti limiti, tra l’altro aggravatisi nel tempo. Per intenderci, il referendum che nel 1993 determinò il passaggio dal proporzionale al maggioritario (Mattarellum) sarebbe con ogni probabilità oggi ritenuto inammissibile, perché troppo manipolativo. Ne segue che un attacco referendario alla legge elettorale è poco efficace, potendo probabilmente colpire solo profili non essenziali. Quindi, il voto sulla magistratura potrà essere la sola occasione in cui il popolo sovrano avrà diritto di parola, con una valenza che di fatto va ben oltre qualche migliaio di magistrati, per toccare l’architettura istituzionale. È su questo che Meloni cerca l’investitura plebiscitaria. Nelle urne referendarie la decisione da assumere sarà se con un sequel al berlusconismo andare verso un trumpismo italico, o rimanere nella tradizione delle democrazie liberali. È una strategia in due mosse – referendum, legge elettorale – in cui il plebiscito cercato nella prima si pone a sostegno della seconda. Consentirebbe a Meloni, insieme ad altri elementi nell’azione di governo, di mantenere l’antica promessa di “rivoltare il paese come un calzino”. Potrebbe riuscire. Quale strategia le viene contrapposta?

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