Una cosa accomuna Di Maio e il sindacato che manifesta a Reggio Calabria: il regionalismo differenziato agli atti li espone a un pericolo mortale. Ma una differenza
c’è. Il sindacato ne è finalmente consapevole, e il progetto secessionista viene definito “bugia totale” (Landini) e persino “immondizia” (Barbagallo). Non così Di Maio.
È noto che in commissione bilancio della Camera un emendamento leghista con il parere favorevole di una viceministra e di un relatore 5Stelle (un infortunio?) ha declassato a sgabello la poltrona ministeriale della M5S Lezzi. Salvini ha imposto un baratto: via l’emendamento, in cambio delle intese con Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna in consiglio dei ministri.
Stefani e Zaia hanno dichiarato trionfalmente: è fatta. Di Maio ha balbettato: autonomia sì, ma prima un piano per il Sud.
Il regionalismo differenziato è scelta strutturale, tendenzialmente irreversibile. Un trasferimento di poteri legislativi, funzioni amministrative, risorse, può rivelarsi sbagliato o di eccessivo vantaggio per una regione a danno di altre. Ma la regione avvantaggiata potrebbe bloccare qualunque correzione. Un nuovo parlamento, una diversa maggioranza politica, non potrebbero cambiare rotta senza il consenso della regione. Un referendum sarebbe precluso.
Un piano, invece, è una scelta politica nell’ambito di un indirizzo di governo. Può essere cambiato, sospeso o cancellato. La storia della Repubblica, e in specie il Sud, hanno conosciuto molti piani mai partiti o mai conclusi. Una modifica strutturale, che tocca addirittura gli assetti costituzionali, non si baratta con una scelta politica pro tempore.
Per questo, la risposta di Di Maio è inaccettabile. Con il regionalismo differenziato agli atti il danno al Sud – cassaforte elettorale di M5S – è indiscutibile e
permanente. Se non si ha la forza di bloccare il progetto, si impone almeno una riscrittura che ne espunga gli elementi funzionali al separatismo nordista e ne corregga le molte palesi incostituzionalità.
Bisogna anzitutto pretendere la verità sui conti. Leggiamo sulla stampa che la ministra Lezzi contesta alla collega Stefani le cifre taroccate della maggiore spesa
pubblica a favore del Sud. Era ora che qualcuno nel governo lo dicesse, dopo tante analisi e denunce pubbliche. Non è accettabile portare in consiglio dei ministri prima, e in parlamento poi, scatole vuote prive di elementi su costi e benefici. E se per fare i conti è necessario in premessa sapere cosa si trasferisce alle regioni – come dice Tria in audizione – si impone che nella legge di approvazione siano scritti in sufficiente dettaglio i contenuti delle intese, che poi non si possono in alcun modo sottrarre al pieno vaglio parlamentare, emendamenti inclusi.
Al tempo stesso, la previa determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni per i diritti civili e sociali (Lep), secondo gli 117 e 119 Cost. e la l. 42/2009,
deve essere una condizione inderogabile per ogni ulteriore passo, non un transitorio solo eventuale.
Nel merito, bisogna individuare i profili per cui la dimensione nazionale dell’interesse preclude o impone di limitare la regionalizzazione. Tra questi, si segnala anzitutto la scuola. Ma anche la sanità, le infrastrutture, le grandi reti di comunicazione e di trasporto, il lavoro, l’ambiente, i beni culturali.
Molte delle pretese di Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna vanno respinte.
Il contrasto al regionalismo differenziato in salsa leghista cresce. Dal sindacato viene ora la prima vera opposizione di massa. L’università Federico II approva
un documento di forte critica, e il dipartimento di giurisprudenza, dopo il convegno del 21 giugno con Sandro Staiano, Marco Esposito, Gianfranco Viesti e me, punta
all’istituzione di un osservatorio permanente, cui chiamare anche altri atenei meridionali.
Se Di Maio vuole alzare argini, bene. Ma lo faccia sul serio. Il piano per il Sud non assolverebbe lui e il Movimento dal peccato di aver assunto nel “contratto” come priorità le pulsioni del separatismo nordista. Né consola che il girone dei peccatori sia affollato. Zingaretti nemmeno a Reggio Calabria riesce a denunciare la deriva separatista dei pre-accordi Bressa-Gentiloni e dell’Emilia-Romagna all’inseguimento dei leghisti.
Mentre i governatori del Sud pur di avere qualche frammento di potere in più si mettono in fila per dividersi le spoglie dello Stato in dissolvimento, e gli avanzi di un banchetto altrui.
Una modifica strutturale che tocca addirittura gli assetti costituzionali del Paese non si baratta con una scelta politica tattica