“25 aprile sempre”, recita uno slogan che, nelle rappresentazioni grafiche, vede l’avverbio “sempre” sostituirsi alla data, barrata, del 1945: per ribadire che i valori che stanno dietro la festa nazionale non hanno senso soltanto se collocati là, alla conclusione della guerra mondiale, al momento della fine politica del partito nazionale fascista e del suo capo, alla conclusione di un ventennio di regime e dei suoi strascichi sanguinosi, ma invece hanno e devono avere un senso per la vita delle italiane e degli italiani anche ora, a 76 anni di distanza dalla Liberazione e a 73 dalla nascita della Repubblica.
D’altronde, le feste nazionali fanno sempre riferimento al passato in funzione del presente e, possibilmente, del futuro: sono create con l’intento di individuare idee che, nel proposito di chi si fa promotore dell’opera di memorializzazione (i padri e le madri della Repubblica, in questo caso), devono diventare punti di riferimento per cittadine e cittadini.
Tra queste, la prima è certamente l’antifascismo, che nel suo significato storicamente collocato significa l’opposizione al regime formatosi e consolidatosi tra gli anni Venti e i primi anni Quaranta, responsabile di guerre e violenze all’esterno e di repressione e sopraffazioni in Italia; e in un senso più ampio significa l’opposizione alle proposte politiche che guardino con favore a quel modello. Il 25 aprile non celebra però solo l’opposizione vittoriosa al fascismo, quindi il risultato di una scelta connotata in senso oppositivo, come suggerito dal prefisso “anti”; bensì ricorda la Resistenza, intesa come occasione per costruire una società diversa, improntata a valori differenti e opposti a quelli propugnati dal regime di Mussolini. Lo ha scritto magistralmente Santo Peli nel suo “Storia della Resistenza in Italia”: “oltre che contro tedeschi, si tratta qui di battersi non solo contro il governo collaborazionista di Salò, ma anche contro i risvolti culturali e antropologici di vent’anni di dittatura”: vale a dire contro una società spoliticizzata, silenziata e appiattita, discriminatoria, organizzata secondo una rigida gerarchia sociale e razziale. È dentro questo impegno per un mondo nuovo che si possono trovare dei punti di riferimento capaci di fare del 25 aprile una ricorrenza che racconta del passato, ma che può parlare alla società italiana attuale.
Può parlare all’oggi, ad esempio, perché ricorda una Resistenza che non mise in discussione solo da un punto di vista teorico le gerarchie proposte dal regime, gerarchie che relegavano le persone ai margini della vita sociale in base al colore della pelle, alla provenienza geografica, all’appartenenza politica o religiosa; o che definivano il loro ruolo in base all’appartenenza di classe. Come dimostrano studi più e meno recenti, la lotta di Liberazione vide la partecipazione di donne e uomini di origine, lingua, colore della pelle, convinzione religiosa diversa: non solo dunque combatté l’ordine costituito, ma con la sua stessa esistenza lo scardinava. Nell’Italia attuale le disuguaglianze di classe, di genere, o basate su concezioni razziste non sono certamente né messe al centro dell’organizzazione sociale e alimentate, esplicitate, legalizzate come ai tempi del fascismo. Altrettanto certamente, però, disegnano rapporti di potere, definiscono diritti e circoscrivono spazi di azione: lo dimostrano ad esempio le lunghe lotte per la cittadinanza delle seconde e terze generazioni di migranti, i casi delle infinite violenze di genere e dei soffitti di cristallo per le donne, le sempre meno tutele dei lavoratori, l’aumento dell’incidenza della povertà assoluta. Se i contesti sono diversi e non paragonabili, la Resistenza resta però il simbolo della possibilità di immaginare e di provare a realizzare una società differente e inclusiva.
Inoltre, proprio la stessa interpretazione dell’impegno come un valore, e come un valore di rottura, fa del 25 aprile una data vicina a noi: se, ancora una volta, la spoliticizzazione del presente si origina da cause diverse e assume forme differenti e incomparabili con quelle del Ventennio, il disinteresse per la partecipazione politica ha evidentemente connotato gli ultimi decenni della storia italiana. Nel periodo che stiamo vivendo si avvertono delle inversioni di tendenza: in tutta Europa, ad esempio, la pandemia di Covid19 ha stimolato la nascita di nuove forme di intervento che sono esse stesse, nel momento in cui si realizzano, un passo verso un modo nuovo di concepire i rapporti sociali e la stessa partecipazione politica. Allo stesso tempo, però, proprio la pandemia ha spinto una parte della popolazione verso un individualismo ancora più marcato, verso l’abbandono degli spazi pubblici a favore di quelli privati, verso la disgregazione di reti e rapporti sociali.
25 aprile sempre, quindi; perché tenere presenti i valori della Resistenza aiuta ad avere dei punti di riferimento, e a vedere l’impegno, la partecipazione, la solidarietà, come la strada per uscire, collettivamente, dai momenti di crisi.