Francesco Piobbichi, il disegnatore sociale che mette la sua arte al servizio delle persone migranti

di Laura Tussi - 16/06/2024
Dall'Umbria a Lampedusa, la vita di Francesco Piobbichi segue un filo rosso: quello dei diritti degli "invisibili", delle persone di cui si parla solo quando un telo bianco ne copre il corpo o la loro baracca brucia. Attraverso la sua arte, Francesco dà voce a loro, raccontando le loro storie e sostenendoli attivamente nell'affermazione dei loro diritti.

«Se fossi nato in questo periodo negli Usa, mi avrebbero dato il Ritalin per calmarmi dato che sono iperattivo, invece una maestra intelligente mi diede dei colori per disegnare mentre lei faceva lezione: aveva notato che il disegno era un modo per concentrarmi ed ascoltare le sue spiegazioni».

Francesco Piobbichi ha iniziato a disegnare alle elementari e da allora non ha più smesso. Oggi è un “disegnatore sociale” e lavora come operatore per il progetto Mediterranean Hope della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia. Fra i suoi lavori, gli ultimi sono Mediterranean Hope e Fuori dal buio (Edizioni Cronache Ribelli), testi in cui Piobbichi racconta attraverso i suoi tratti il dramma dei profughi che attraversano il Mediterraneo.

Come hai posto il disegno nel mondo dell’impegno sociale e soprattutto per salvare” gli ultimi e i più fragili del pianeta provenienti dal mare?

Il disegno è parte della mia vita e quindi lo uso come parte del mio linguaggio. In politica e nelle pratiche sociali. Nel mio percorso di vita ho capito che dovevo legare il tema del disegno alla pratica sociale, supportarla come racconto e memoria, mettendo la dimensione artistica a valore per sostenerla. L’inverso di quello che avviene oggi, che la comunicazione estrae il racconto sociale, lo saccheggia per venderlo nel mercato delle emozioni o della pornografia del dolore senza mai restituire nulla.

In che modo il lavoro in frontiera ha motivato e ispirato la tua arte?

Il lavoro in frontiera mi ha permesso di trovare uno sfondo per i miei disegni, la cornice e lo scenario dentro i quali si sono collocate le storie, storie che poi racconto in giro per l’Italia da anni, proiettando i disegni dietro le mie spalle come facevano i cantastorie dei subalterni nella Sicilia degli anni ’50. 

Lampedusa. Il luogo che ha dato vita e sfogo a questa tua ispirazione.

Lampedusa è stato il luogo che più mi ha forgiato in questo senso, perché ho cercato di mettere a disposizione la dimensione artistica per provare a costruire una pratica di racconto decolonizzato, che tenesse prima di tutto in mente il tema del rispetto delle persone che finiscono negli obbiettivi i cui volti spesso vengono esposti senza nessun riguardo. Il disegno mi ha permesso in qualche modo di proteggerli pur dovendo raccontare i segni che la frontiera gli ha lasciato sul corpo e l’anima. 

Segnare il dire dei senza voce e dei senza nome sprofondati nell’abisso: così è nato il tuo libro Disegni dalla frontiera.

È un libro che si è formato approdo dopo approdo mentre portavamo acqua e thè al molo Favaloro. Storia dopo storia ho messo insieme tavole che provano a raccontare la tensione tra i colori di un’isola tra le più belle del mediterraneo e la violenza delle frontiere occidentali, tra gli insulti razzisti che ricevevamo e i processi di solidarietà e accoglienza dal basso che vedevamo attorno a noi. 

In questi disegni ritrai molti sentimenti forti come rabbia e amore. Li stessi che porti con te nei racconti.

Ho sempre pensato che davanti al Genocidio che gli stati occidentali sviluppano con le loro politiche di morte alle frontiere, con la loro propaganda di odio con la quale avvelenano la società, che si dovesse innanzitutto opporsi in tutti i modi, senza tregua. 

Così recuperi i segni di questa violenza nelle storie altrimenti dimenticate?

È con questo spirito che ho collaborato insieme ai custodi e alle custodi del cimitero di Lampedusa alla sistemazione delle lapidi. Lapidi di persone che riposano in collera, martiri della libertà uccisi dall’indifferenza usata come arma. 

Dovevi davvero parlare di quel mare spinato che disumanizza la memoria dei morti e degrada i diritti e la dignità dei vivi

Dovevo rendere visibile quella maledizione che chi sopravvive ad esso si porta addosso per tutta la vita, come se la frontiera si attaccasse sulla pelle. Quando arrivavano i giornalisti e ci facevano le interviste davanti al molo Favaloro per costruire l’ennesima campagna per spaventare la popolazione europea, noi li abbiamo invitati spesso a vedere quale era la vera emergenza. Abbiamo proposto di  intervistare le lapidi dei morti, in mare o per effetto della violenza che avevano subito in Libia. Piume di libertà avvolte da filo spinato, persone senza nome che grazie a quelle immagini diventano simboli di martiri della libertà di movimento

Queste lapidi dicono che l’emergenza non è quando arrivano migliaia di persone vive sull’isola di Lampedusa, ma le migliaia di morti in fondo al mare e nei lager.

Alla cancellazione delle prove ci siamo opposti in pochi e poche devo dire, riuscendo però a lasciare un segno, una pratica collettiva di racconto che parla e denuncia. Una delle poche cose che son contento di aver fatto in vita mia è sicuramente quella di essere stato parte di una narrazione collettiva che ha contribuito a tutto questo e continuerà a produrre memoria viva.  

Fuori dal buio invece è l’ultimo lavoro che hai realizzato. E perde completamente i colori, quasi a voler significare che una volta entrati dentro la fortezza occidentale i migranti sono ombre che si muovono sul nero?

Un muro nero che non fa passare luce, la luce dei diritti e dell’uguaglianza. Disegnare con il bianco sul nero per me ha voluto dire mettere in chiaro le cose. Se i disegni della frontiera erano una tensione tra il colore del mediterraneo e la violenza della frontiera,  quelli in bianco e nero di Fuori dal Buio ci parlano di ombre e luce, di oblio e riscatto. Sono nati le sere d’inverno quando tornavamo dalla visita alla tendopoli di San Ferdinando, dai ghetti dei braccianti della piano di Gioia Tauro. 

Fuori dal buio è il nome del progetto che avete fatto in questi anni distribuendo giacchetti con dispositivi catarifrangenti e luci per le biciclette per i lavoratori braccianti?

Sì. Per ridurre il rischio di essere investiti in strade senza luci quando tornano da lavorare. Da quel progetto è nato Dambe so, l’ostello sociale che con l’aiuto di Sos Rosarno e la cooperativa Mani a terra riesce a dare accoglienza degna a circa 50/60 braccianti durante la stagione invernale della raccolta agrumicola. Questa era una cosa che avevo in testa di fare da una decina di anni, da quando insieme  alle Brigate della solidarietà attiva e Finis Terrae contribuimmo allo scoppio del primo sciopero autorganizzato dei braccianti di Nardò, che racconto in un altro libro di disegni: Sulla Dannata Terra.

Fuori dal Buio è un libro nato quasi per caso?

Ero a Perugia e feci vedere le mie tavole a Matteo Minelli di Cronache ribelli, che decise di montarle in un libro. La Piana di Gioia Tauro è un luogo nel quale i braccianti subiscono una violenza che nel corso del tempo ha assunto varie forme. Dagli omicidi diretti dei lavoratori, a quelli provocati dalle politiche di razializzazione della forza lavoro.

I braccianti sono morti con un colpo di fucile in testa come è successo a Soumaila Sacko, bruciati nelle baracche come Becky Moses, investiti mentre tornavano dal lavoro come Gora Gassama, di freddo come Dominic Man Addiah. Sono decine e decine. Li vediamo e parliamo di loro solo quando un telo bianco ne copre il corpo, solo quando una baracca brucia, altrimenti restano invisibili a vita. 

Mediterranean Hope, il progetto della Fcei che ti permette di fare questo lavoro, è stato un aiuto fondamentale per costruire Dambe so. So che è una sorta di piccola rivoluzione.

Sì. Perché dimostra che le cose si possono fare. Dimostra che i lavoratori braccianti possono avere una casa e non un container, che possono vivere in città e non in luoghi confinati, che possono avere la libertà e la dignità. Dimostra che l’utilizzo ecosociale della terra è possibile, che tagliando la GDO si può alimentare un processo economico di mutuo appoggio che sostiene pratiche come la nostra. 

Una delle poche cose che son contento di aver fatto in vita mia è sicuramente quella di essere stato parte di una narrazione collettiva

Oltre a tutto questo, Fuori dal buio è un libro di denuncia diretta allo strapotere della Grande Distribuzione Organizzata?

Certamente. I cui attori, dopo aver centralizzato i processi di acquisto, operano come monopolisti sui prezzi, importando da fuori Europa prodotti a bassissimo costo e ricattando gli agricoltori su prezzi al ribasso che a loro volta sfruttano i braccianti.

Assieme a diversi attori che lavorano nella Piana di Gioia Tauro state costruendo un modello di accoglienza diffuso contro il modello dei campi e state provando a costruire una proposta?

Sì. Fuori dal Buio si conclude con una frase per me molto importante: “Verrà il giorno del riscatto, per noi e le nostre terre colonizzate”. La frase è accompagnata dall’immagine di un pugno che accende luce nell’oscurità e brucia la frontiera dell’ingiustizia. È una immagine che restituisce la potenza a questi lavoratori che sfidano un lungo viaggio per porre un tema che nessuno vuole affrontare.

Quello del diritto alla mobilità per tutte e tutti. Oggi viviamo in un pianeta dove possono viaggiare solo i ricchi e chi ha la fortuna di nascere in occidente; il diritto alla mobilità globale è una rivendicazione visionaria, ma potente. Come lo era rivendicare le 8 ore nei secoli scorsi, come lo era tirar via i fanciulli dalle fabbriche.

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