Il deserto

di Ascanio Celestini - comune-info.net - 19/03/2020
Forse dovremmo cominciare dal rispondere a quella domanda: cosa porteresti su un’isola deserta? Qualche libro, alcuni film, gli occhiali, la bicicletta, il caffè… “L’elenco si allunga. Ognuno faccia il suo – scrive Ascanio Celestini – Quel giorno usciremo di casa senza più contare i centimetri

Anche le crisi aprono vie d’uscita e di riflessione” scrive l’antropologo Adriano Favole.* Parla del ciclone Tomas che nel 2010 colpisce l’isola polinesiana di Futuna. Il vento a 200 chilometri orari distrugge l’80 per cento degli alberi, quasi tutta la terra coltivata e rade al suolo una casa su tre.

Lo scenario naturale e umano è sconvolto. Le lastre ondulate dei tetti sono “scagliate, come proiettili, a chilometri di distanza. Tonnellate di plastica dell’improvvida discarica realizzata a ridosso dell’oceano” finiscono in mare. Anche il “panorama olfattivo” si scompagina. “Ogni arrivo a Futuna è accompagnato dal dono di collier di fiori, tiare, frangipani, gelsomini, frutti selvatici dal sentore di mela. Tomas si era portato via i profumi, oltre ai colori tropicali”.

Scaenarium è un termine latino. Questo riporta il vocabolario Treccani. Significa “spazio per le scene”. Non il magazzino dove si stipano la scenografie, ma il luogo fisico nel quale prendono vita. È il palcoscenico nella sua interezza. Ci sono gli oggetti usati dagli attori, ma anche quelli che momentaneamente si trovano in secondo piano. Ci sono le quinte armate o appese come tende, i fondali e i cieli, i tiri legati ai mantegni e la graticcia con tutti i suoi rocchetti. E nello scenario accade il teatro per intero. Gli scambi di battute, i monologhi, le controscene, le musiche, i canti e le danze. Ma ci sono anche le attese. L’attore che ripassa la sua battuta prima di entrare in scena, il siparista pronto a chiudere o aprire il sipario al momento giusto, il macchinista che deve sciogliere una corda e calare un fondale, il suggeritore nella sua buca, l’orchestra nel golfo mistico e forse anche il pompiere mezzo addormentato che interviene una volta ogni vent’anni quando prende fuoco una tenda.

La parola teatro proviene dal greco ϑεάομαι, un verbo che è relativo al guardare, essere spettatore, assistere. E queste due parole bastano per mettere insieme tutto ciò che serve all’Amleto di Shakespeare e agli spettacoli comici di Lillo e Greg, alla prima della Scala con le personalità sedute in platea e agli spettacoli della parrocchia. Ci vuole una scena con le cose che ci accadono dentro e almeno uno spettatore che assiste. Il teatro funziona proprio come la vita. E quando viene bene ci da le stesse emozioni, ma tagliando i tempi morti, i momenti noiosi, le persone che si intromettono tra noi e il tempo che vogliamo vivere.

Ora proviamo a fare un esperimento. Prendiamo lo scenario e cominciamo a togliere pezzi. Leviamo la scenografia. Quella degli spettacoli nei quali si riproducono luoghi in maniera realistica, ma anche quella degli spettacoli più astratti o almeno più asciutti nei quali troviamo solo pochi oggetti, un albero, una sedia, una lampadina. Togliamo tutto e lasciamo l’attore da solo. Poi leviamo anche le quinte, i cieli e il fondale.

L’attore si troverà in mezzo a un palcoscenico che si mostra come una grande stanza. I muri sono generalmente grezzi. È possibile che da qualche parte ci sia scritto “vietato fumare”. Troveremo almeno una porta che conduce verso i camerini e forse un’altra verso la platea o i palchetti laterali. Le luci di sicurezza accese e gli estintori da usare in caso di incendio. Una scala rudimentale porta verso la graticcia, dai mantegni inchiavardati a terra o alle pareti partono le corde che scompaiono in alto per ricomparire annodate a stangoni di legno o americane con par, pc e sagomatori appesi. Allora togliamo anche questi. Togliamo tutto, anche la graticcia con tutti i rocchetti.

La stanza appare ancora più grande. Guardandola non capiamo più a cosa serva. E anche l’attore diventa un intruso qualunque. Perciò togliamo anche lui. Guardiamolo adesso questo scenario vuoto. Cerchiamo di capire se ha un senso sedersi su una bella poltrona rossa per guardare questo spettacolo.

Uno spettacolo del Living Theatre iniziava con un attore immobile in proscenio. Non c’era molto altro. Dopo un po’ inevitabilmente gli spettatori cominciavano a intervenire. Qualcuno si arrabbiava. Qualcun altro cercava di interagire. Mi ricordo che una volta al teatro Vascello di Roma un tipo disse “non posso stare qui fino a domattina. Ho pagato il parcheggio solo per un paio d’ore”. Un altro gli ha fatto le boccacce. Un altro ancora il solletico. Una ragazza si è messa a ballare.

Ecco. Nel nostro scenario non c’è nemmeno l’attore. Non c’è possibilità di interagire. Dunque anche lo spettatore diventa inutile. E allora togliamo anche lui. Smontiamo il ϑεάομαι. Non c’è niente da guardare.

Il ciclone polinesiano del quale parla l’antropologo si porta via tutto. Il vento passa a 200 chilometri orari e trascina lontano uomini e cose, li spara “come proiettili a chilometri di distanza”. Scompagina anche il “panorama olfattivo”. Come si dice a Roma “non ci resta manco la puzza”.

Sono tornato a Roma mercoledì 4 marzo. Da allora sono uscito di casa tre volte. L’ultima è stata dieci giorni fa. C’erano già pochissime persone in strada a piedi e in macchina. Si trovava il parcheggio comodo anche nelle strade dove normalmente non si scandalizza nessuno a fermarsi in seconda fila. Adesso vedo le immagini di Roma in televisione. Dopo le assurde ammucchiate per fare la spesa delle prime ore la città si è svuotata. L’Italia è diventata una succursale del deserto. È stata la naturale e auspicabile conseguenza del Covid-19. Il parassita si è fiondato contro le nostre vite scagliandoci come proiettili dentro le case. Ora contiamo i giorni passati dall’ultimo contatto esterno.

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