Il presepe, la laicità dello Stato, il razzismo

di Tomaso Montanari - Il Fatto Quotidiano - 12/12/2019
A scuola non si fa il presepe: si fa l’Italia. O si muore: di razzismo, e ignoranza

«Illustrissimo dirigente scolastico, considerato l’avvicinarsi del Santo Natale le chiedo la disponibilità a valorizzare all’interno del Suo istituto, ogni iniziativa legata a questa importante festività come l’allestimento di presepi e lo svolgimento di recite o canti legati al tema della Natività. Ritengo che la ricorrenza natalizia e le conseguenti tradizioni come il Presepe, l’Albero di Natale e le recite scolastiche ispirate al tema della Natività siano parte fondante della nostra identità culturale e delle nostre tradizioni che la Regione Piemonte intende tutelare e mantenere vive. Allo stesso tempo, è evidente che la conoscenza delle nostre tradizioni scevra da qualsivoglia connotazione ideologica sia un supporto alla piena integrazione per chi proviene da altre realtà». Così Elena Chiorino di Fratelli d’Italia, assessora all’istruzione, lavoro, formazione professionale, diritto allo studio universitario della Regione Piemonte, si è rivolta a tutti i dirigenti scolastici piemontesi. La banalità del razzismo, verrebbe da commentare. Perché queste parole così grigie, usurate, burocratiche e dozzinali, con le loro maiuscole retoriche, contengono ed esprimono una violenza inaudita. Una quadruplice violenza.

La prima è quella usata contro le comunità scolastiche di insegnanti, alunni e genitori, che si trovano a subire questa pressione politica e ideologica dall’alto: alla faccia di ogni autonomia, e nel sovrano disprezzo del percorso di ogni istituto.

La seconda è quella usata contro la laicità dello Stato, contro la Costituzione, contro quella religione civile della cittadinanza, fondata sul rispetto di ogni diversità, per cui in Italia si combatte almeno dai tempi di Mazzini.

La terza è quella probabilmente più inconsapevole: ed è quella contro i cattolici che ci credono davvero. E che non pensano che la loro fede si riassuma in un rosario brandito da un predicatore di odio, intinto nel mojito e incorniciato da cubiste. Perché è fin troppo evidente la strumentalità di questo maldestro marketing dei simboli cristiani: usati e abusati perché ritenuti soprattutto simbolo etnico, nazionale e nazionalista. La “nostra identità culturale” è l’espressione chiave di questa direttiva degna di una teocrazia orientale. Ora, chiunque abbia sfogliato anche solo un po’ il Nuovo Testamento dovrebbe aver colto la costante separazione del messaggio cristiano da ogni identificazione etnica: per chi segue Gesù, scrive san Paolo, non «c’è più uomo o donna, schiavo o libero, giudeo o greco». Perché l’unica appartenenza “identitaria” per un cristiano è quella umana. Sappiamo bene che millenni di storia, dall’editto del 380 in cui Teodosio faceva del cristianesimo la religione di Stato, si sono incaricati di contraddire questa incontrovertibile verità: benedicendo cannoni, ungendo col crisma immani macellai, e invariabilmente urlando da ogni lato del campo di battaglia: “Dio con noi!”. Ma almeno dal Concilio Vaticano II è acquisito che si trattava di mostruose bestemmie del nome di Dio. Ma, si dirà, qua mica facciamo le crociate: vogliamo solo fare il presepe nelle scuole. Il presepe vale l’albero, dice l’assessora: e questa sì che è un’offesa ai cristiani, che vedono ridotti i loro simboli rivoluzionari a innocuo arredo natalizio: con le immagini della Sacra Famiglia considerate alla stregua del cotechino.

La quarta violenza è l’unica voluta, deliberata. Ed è la più odiosa, perché è quella contro i più i deboli: «chi proviene da altre realtà», come dice pudicamente l’assessora del partito della cristianissima Giorgia. Cioè i migranti, gli “islamici”, i ne(g)ri. E pure gli ebrei, eh. L’assessora non è sfiorata dal dubbio che esistano cittadini italiani da generazioni, e che dunque non provengono affatto da altre realtà, ma non sono cristiani. E che hanno il diritto di non vedere i loro figli fare il presepe cristiano in una scuola laica della Repubblica mantenuta con le loro tasse. (A proposito, la Regione Lombardia quest’anno stanzia 50.000 euro per fare presepi ovunque…).

Quanto ai nuovi italiani, o a coloro cui neghiamo la nostra cittadinanza pur usandone le braccia e la fatica: loro si devono «integrare». «Pienamente», dice la pia “fratella d’Italia”. Ti vuoi integrare? Devi fare il presepe. Che farebbe parte «delle nostre tradizioni che la Regione Piemonte intende tutelare e mantenere vive». Chissà se l’assessora sa di star parafrasando l’articolo 9 della Costituzione. Lo sta parafrasando, ma senza capirlo. Lì c’è scritto che la Repubblica «promuove lo sviluppo della cultura» e «tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione». È l’unico dei principi fondamentali in cui si usi la parola “nazione”: e proprio per delinearne l’“identità culturale”, come direbbe la nostra simpatica crociata piemontese. Ebbene, lì non si parla di tradizioni, di fede, di razza, di etnia, di terra o tradizioni. Si parla di «sviluppo della cultura». Cioè non di una cultura statica, ma di un progresso infinito di cambiamento e contaminazione. Già: perché se esiste una “identità culturale italiana” il suo nome è “meticciato”. E poi quell’articolo parla del dovere di tutelare il territorio, la storia e l’arte: cioè un palinsesto che rappresenta tutta la varietà e la meraviglia di un paese in cui cristiani, ebrei, musulmani, agnostici, atei e tanti altri ancora si sono incontrati e hanno lasciato una traccia. A scuola non si fa il presepe: si fa l’Italia. O si muore: di razzismo, e ignoranza.

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