«Adotteremo un approccio umano e umanitario. Salvare vite in mare non è un’opzione. E quei paesi che assolvono i loro doveri giuridici e morali o sono più esposti di altri devono poter contare sulla solidarietà di tutta l’Unione europea. […] Tutti devono farsi avanti e assumersi la propria responsabilità».
Queste parole, tratte dal discorso della Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen sullo stato dell’Unione 2020, sono anteposte al testo del “Patto sulle migrazioni e l’asilo” presentato come la svolta tanto attesa dell’Unione Europea sulle politiche dell’immigrazione. Peccato che le buone intenzioni si fermino al preambolo dove si riconosce che: «La migrazione è un fenomeno costante nella storia dell’umanità e ha avuto profonde ripercussioni sulla società, l’economia e la cultura europee. Se inserita in un sistema correttamente gestito, la migrazione può contribuire alla crescita, all’innovazione e al dinamismo della società».
Il Patto poteva essere l’occasione per ripensare le politiche sull’immigrazione messe in campo dagli Stati membri e dall’Unione Europea, per correggere l’impostazione dell’Europa-fortezza che respinge, per prendere atto dell’incapacità delle politiche migratorie in atto di conformarsi ai principi di civiltà iscritti nelle Carte costituzionali degli Stati membri e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione. Invece si tratta sostanzialmente di un’occasione perduta.
Nell’affrontare il tema dei flussi di persone che varcano le frontiere europee senza autorizzazione permane l’impostazione securitaria. Si prospettano procedure rapide alla frontiera con un esame accelerato delle domande di asilo «con scarse possibilità di essere accettate» valorizzando i concetti di «paesi di origine sicuri» o «paesi terzi sicuri» a cui far corrispondere una procedura comune di rimpatrio. Non solo ma viene lasciato invariato il sistema di Dublino che scarica sugli Stati di confine del Sud-Europa tutto il peso della gestione dell’accoglienza e delle domande di asilo e la solidarietà viene evocata non per imporre l’accoglienza ma per finanziare le procedure di rimpatrio. Il Patto riconosce che solo un terzo delle persone che non hanno diritto di soggiornare nell’UE sono effettivamente rimpatriate. Sennonché l’unica risposta che viene fornita a questo problema sociale enorme, che vede la presenza di milioni di persone in Europa rese invisibili perché prive di ogni diritto, è che bisogna incrementare il tasso dei rimpatri con misure maggiormente coercitive e rafforzare le sanzioni per i datori di lavoro che impiegano migranti irregolari al fine di realizzare «un effettivo divieto di impiego dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare».
Il Patto richiede, poi, un approccio europeo alle operazioni di ricerca e soccorso in mare, riconoscendo che l’attraversamento con imbarcazioni non idonee comporta la perdita di molte vite in mare e osserva che «Frontex dovrebbe fornire un maggiore sostegno operativo e tecnico nell’ambito di competenza dell’UE e mettere mezzi marittimi a disposizione degli Stati membri, al fine di migliorarne le capacità e contribuire così a salvare vite umane in mare». Intenzione ineccepibile ma contraddetta dalla realtà: il Patto non spiega, infatti, perché i mezzi navali delle missioni di Frontex (l’Agenzia per il controllo delle frontiere esterne) sono stati ritirati dal Mediterraneo centrale e, contemporaneamente, è stata ostacolata in tutti i modi l’attività di salvataggio operata da navi private. L’unica spiegazione è quella di una preordinata, dolosa e perdurante omissione di soccorso volta a scoraggiare l’arrivo di flussi di migranti e richiedenti asilo attraverso la frontiera del Mediterraneo.
Per frenare l’immigrazione irregolare il Patto ribadisce la politica di esternalizzazione delle frontiere attraverso la stipulazione di accordi, aventi ad oggetto il contrasto all’immigrazione, con i Paesi di transito, fra i quali viene esplicitamente nominata la Turchia. Nessun accenno viene fatto alla Libia, alle vergognose condizioni in cui viene mantenuto il popolo dei migranti e richiedenti asilo nei suoi lager, ai respingimenti collettivi delegati in fatto alla sua cosiddetta guardia costiera, da tempo soggetta alle indagini della Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità.
Questo documento, al di là di alcune buone intenzioni declinate in modo generico, conferma le politiche fallimentari fin qui seguite dall’UE e dai suoi Stati membri in materia di asilo e immigrazione. Il fenomeno delle migrazioni viene affrontato come una questione di ordine pubblico da affrontare con maggiori controlli, campi di concentramento alle frontiere esterne dell’Europa, espulsioni rapide, strutture coercitive più efficienti per eseguire i rimpatri, rafforzamento della polizia di frontiera; nessuna sconfessione degli accordi con la Libia e con la Turchia; nessun canale di accesso legale per i richiedenti asilo; nessun provvedimento per svuotare il campo di Moria, vergogna europea sull’isola di Lesbo, e per impedire che se ne possano formare di nuovi; nessun ripensamento sulla condizione insostenibile di vita di quella porzione del popolo dei migranti presente in Europa in condizione irregolare che per ragioni di fatto non può essere rimpatriato.
La politica dell’UE esprime e determina inevitabilmente anche i comportamenti e la cultura di fondo della società civile europea, al di là dei governi degli Stati membri. Per questo l’inversione di rotta deve necessariamente partire da Bruxelles ed è necessario un profondo ripensamento delle linee di fondo del Patto sulle migrazioni e l’asilo.