Mai avremmo pensato che il 25 aprile potesse porci un problema. E’ sempre stato il momento dell’unità antifascista: premessa della Repubblica, fondamento della Costituzione. Ci sono state occasioni in cui la memoria critica del fascismo tornava d’attualità. Ad esempio quando Berlusconi è andato al governo alla guida di una coalizione che poggiava anche su un partito che traeva dal fascismo la sua origine. Negli anni dei governi di centrodestra i giovani hanno scoperto la presenza dell’ANPI: la testimonianza dei partigiani ancora in vita, il contributo delle donne combattenti, la speranza nella rinascita. Anni in cui l’incontro delle generazioni più vecchie e più giovani hanno rinvigorito il dialogo sociale e stimolato nuove consapevolezze. A mano a mano che i vecchi partigiani scomparivano si faceva più forte la necessità di salvaguardare la memoria. Ricordo ancora in una scuola di Castelfiorentino un’assemblea in cui Teresa Mattei, staffetta partigiana e poi deputata nell’Assemblea Costituente, aveva saputo col racconto dell’esperienza personale affascinare fino all’entusiasmo centinaia di studenti e studentesse.
Per il prossimo 25 aprile l’ANPI ci pone un problema. Si celebra la Liberazione mentre è in corso la guerra di aggressione della Russia all’Ucraina. Una guerra brutalmente asimmetrica in cui le distruzioni si moltiplicano tutte nel territorio aggredito, mentre l’aggressore considera provocazione qualsiasi attacco al suo territorio. Ora appare sempre più evidente la prova di stragi di civili massacrati dalle truppe russe in ritirata. Bucha è stato il primo caso ma non è il solo. Ha suscitato forti critiche (per primo Flores d’Arcais) il comunicato con cui l’ANPI dava notizia della strage lasciando aperta la questione della responsabilità e ammettendo implicitamente che i soldati russi potessero essere incolpevoli. Altre critiche ha sollevato la posizione assunta dall’ANPI contro l’invio di armi al popolo ucraino. Qui l’ANPI è in aperta contraddizione con la storia della Resistenza: se i partigiani italiani nell’inverno del ’44-’45 non si fossero procurati le armi non solo non avrebbero contribuito alla Liberazione ma avrebbero condannato l’Italia al ruolo di paese macchiato per sempre dall’incapacità di liberarsi dalla dittatura subita per un ventennio. E insistere come qualcuno fa in distinzioni capziose sulla diversità tra l’autodifesa ucraina e l’esperienza italiana aggrava l’errore. E rivela un secondo aspetto: la comprensione per le ragioni di Putin, la teoria dell’accerchiamento Nato che motiverebbe l’aggressione russa.
Chi ragiona così in realtà non vuole accettare la fine dell’Unione Sovietica. E’ il crollo dell’URSS, nien’altro, che ha provocato la diaspora dei paesi satelliti, ben prima dell’abbraccio interessato della Nato. Perché il fallimento del socialismo avrebbe dovuto spingerli a subire il capitalismo oligarchico nato sulle sue rovine? I satelliti hanno colto subito l’occasione per liberarsi dal tallone del dominio russo. E la pretesa di Putin di riaverli agli ordini come corona del nuovo impero asiatico è del tutto irrealistica. Perfino Orban, l’amico più stretto, preferisce costruire il suo stato reazionario all’ombra dell’Europa. Per fortuna nell’ANPI si è manifestata una diversità di opinioni e nella società non sono mancate tempestive prese di posizioni alternative. Il presidente emerito dell’ANPI Smuraglia si è espresso nettamente a favore dell’invio delle armi. Così Cofferati, Maraini e altri. E più di recente Liliana Segre ha sostenuto che non c’è reale solidarietà con gli aggrediti se non si dà loro le armi per difendersi. E infine valga su tutto il discorso del Presidente Mattarella. Nella comunità militante che ha sempre condiviso con l’ANPI il 25 aprile molti ora non condividono la posizione ufficiale dell’associazione e preferiscono celebrare la Liberazione con il sostegno attivo all’autodifesa ucraina.