Inseguito da cause giudiziarie per reati infamanti, ostaggio di ricattatori avidi e agguerriti, appeso a parlamentari comprati ma inaffidabili, incapace di arrestare la dissoluzione del centrodestra, screditato in Italia e ancora di più sul piano internazionale. Così Berlusconi appare incrinato su tutti i fronti. La sua credibilità è ridotta al lumicino. Il suo esibito ottimismo suona sempre più falso. Solo la Chiesa -osserva Barbara Spinelli- evita di dargli il colpo di grazia. Il suo saluto alla folla col sorriso stereotipato, dall’interno dell’Audi di lusso o in piedi nella cerchia della sua guardia del corpo, non inganna più nessuno: tutti sanno che ormai intorno ci sono solo le videocamere dei telegiornali. Finge e mente. Mente e finge.
Non sappiamo ancora quanto tempo ci vorrà per liberarci definitivamente di lui. Comunque vada sarà sempre troppo tardi. Perché il veleno inoculato dal grande corruttore è penetrato in profondità nelle vene del paese. E’ un veleno molto diverso da quello dispensato dal sistema dei partiti, dalla lottizzazione, dalla rete tra politica e affari, cui la società si era da gran tempo abituata. Questo c’è e funziona ancora, in profondità e in superficie: è la fisiologia del paese. Può sembrare urtante ma si può dire perfino: la fisiologia democratica del paese. Il nuovo veleno è monocratico, eterodiretto, a senso unico. Prima dell’anomalia italiana, politica e televisione erano certamente in stretto rapporto ma il vissuto collettivo si articolava in un vasto pluralismo: nonostante la TV comandata dalla DC nemmeno il cittadino più disponibile si sarebbe identificato in Moro, Fanfani, per non dire Piccoli o Forlani O Craxi.
La televisione in mano diretta al detentore del potere politico ha prodotto un effetto mostruoso ignoto nelle altre democrazie: il cittadino anonimo può infatuarsi del capo e identificarsi con lui. La realtà non conta niente. Conta lo splendore della parvenza. La rappresentanza politica, compito nobile e arduo, è sostituito dalla rappresentazione. In senso duplice. Il capo mette sempre in scena la rappresentazione di sé e, allo stesso tempo, la rappresentazione non del popolo ma del volgo. Capo e volgo riuniti nella stessa aura pubblicitaria.
L’identificazione produce complicità. Turpe comico del peggior varietà, il capo ghigna e ammicca, certo della complicità del volgo: dice e fa ciò che vorrebbero fare tutti. Lo fa per loro, impediti dai loro impacci. Lui ne è privo e se la legge li appronta anche per lui, allora scioglie la legge. La complicità col capo è assai più oscura e pericolosa della cantatina grottesca (meno male che Silvio c’è). Incrina la legittimità stessa, mina i fondamenti costituzionali, trasforma la conflittualità intrinseca e pluralistica della società in un indistinto codazzo di adoratori (e adoratrici).
Stiamo per liberarci dell’anomalia italiana. Ma alla cura delle macerie sociali, economiche e istituzionali che ci lascia, dovremo aggiungere la capacità clinica di curare il suo lascito forse più insidioso: la malattia psicologica annidata nelle vene del volgo.