Si prova un senso di impotenza così profondo e irrimediabile che rende difficile non solo argomentare ma anche manifestare. E ancora più drammaticamente impotenti sono i soggetti che nei due fronti vorrebbero arrestare lo scontro.
Espressa così la situazione sembrerebbe simmetrica. Ma non lo è. Non si tratta solo della vistosa asimmetria nel numero delle vittime. Michele Serra ha già rimarcato qualche giorno fa come il rapporto sia semplificabile nella proporzione di uno a cento: quattro israeliani e quattrocento palestinesi morti. Ed è quasi certo che nel proseguo dell’invasione di Gaza il bilancio non possa che aggravarsi a danno dei palestinesi.
L’asimmetria domina il quadro dall’inizio della fase che ha portato alla situazione attuale. Israele ha interpretato la necessità della sua sicurezza con una politica che in realtà l’ha messa costantemente in pericolo. Per garantirla avrebbe dovuto stabilire un’intesa col governo di Fatah e invece l’ha sempre delegittimato. Avrebbe dovuto davvero scambiare la terra con la pace, ma ha preferito dare terra a fette e sezionata in pezzi di mosaico e ha ricevuto pace altrettanto incerta e frammentaria. Ci sono ben note ragioni interne nel collasso di Fatah, come la corruzione diffusa nella sua classe dirigente, ma la vittoria di Hamas è stata anche un prodotto indiretto della politica israeliana.
Dopo aver contribuito alla sconfitta dell’interlocutore moderato, oggi Israele si considera legittimato a combattere fino alla fine l’avversario estremo che aveva di fatto aiutato a vincere. Così guerra era prima e guerra resta a maggior ragione ora. Ma con questa scelta Israele si nega tutte le vie per giungere alla pace. Difendere le proprie famiglie massacrando quelle palestinesi, spingere allo stremo il popolo chiuso in una striscia priva di sovranità produrrà solo l’aumento della leva tra i combattenti irriducibili. E ciò non potrà che riprodurre all’infinito uno stato di guerra. Uccidere i capi di Hamas serve solo a far emergere nuovi capi. Distruggere case, scuole e moschee serve solo a moltiplicare l’odio e la volontà di lotta. E a fornire una motivazione in più a chi si riconosce negli stati che, come l’Iran attuale, teorizzano, sulla base dell’usurpazione originaria, la scomparsa definitiva di Israele.
Israele ha una supremazia riconosciuta nell’uso della forza. Uno scrittore israeliano ha consigliato al suo paese di dare prova di magnanimità fermandosi prima di compiere errori irreparabili. Anche se volesse trascurare la pietà, se fosse anche solo in nome della sua stessa sicurezza, Israele dovrebbe capire che è necessario usare la sua forza per garantire la pace più che per moltiplicare la guerra. Invece, con la scelta di guerra, Israele rischia di esaurire il credito che la storia ha concesso allo stato costruito per risarcire il suo popolo dalle persecuzioni subite. E queste potranno apparire sempre più lontane al confronto con quelle inflitte al popolo palestinese.