Il caso Ruby tra menzogne e abusi di potere

di Pancho Pardi - 04/11/2010
Grave è l'idea che anche un solo giornalista in Italia possa ancora pensare che un soggetto così indegno come B possa aspirare alla massima carica dello stato

La decisione della Procura milanese circa la correttezza della procedura adottata in Questura per l'affidamento della "nipote di Mubarak" alla consigliera regionale Minetti non scioglie tutti i dubbi. Per esempio non è vero che non esistessero strutture di accoglimento: i giornalisti ne hanno accertate ben quattro nella sola Milano.

Ma si può capire il senso essenziale della decisione. Io lo capisco così: l'asserita correttezza formale sottrae i funzionari di polizia alle conseguenze di una verifica che avrebbe potuto metterli in difficoltà per responsabilità non loro ma del presidente del consiglio che ha esercitato su di loro una pressione illegittima e insinuante.

Il fatto che funzionari di polizia non debbano subire gli effetti di atti indipendenti dalla loro volontà ricostituisce in questa vicenda, a tutti gli effetti indegna della democrazia, un minimo di giustizia sostanziale.

Con la consueta faccia di bronzo il presidente del consiglio si è affrettato a sostenere che la decisione della procura è l'inizio del riconoscimento che tutta la questione era una montatura di carta a suo danno. In realtà la correttezza della procedura non solleva in alcun modo il presidente del consiglio dalle sue pesanti responsabilità.

Egli ha mentito in modo plateale ai funzionari della Questura sostenendo che Ruby era nipote di Mubarak. Che abbia usato l'artificio retorico di non assumersi direttamente la paternità della notizia ingigantisce la sua ipocrisia e non elimina affatto il suo uso strumentale volto a mettere sotto pressione persone che solo con grande difficoltà avrebbero potuto sottrarsi al suo illegittimo imperio. Tra l'altro l'effettivo accertamento dell'identità dell'arrestata ha smentito all'istante la sua ipotetica parentela con il capo di stato egiziano. E in ogni caso la sua parentela non avrebbe potuto giustificarne il rilascio. Siamo nel regno della menzogna.

Qui sta il punto principale: la menzogna è di per sé riprovevole nel contesto di una comunicazione ufficiale ma il suo peso è moltiplicato dall'abuso in atti d'ufficio esercitato con la coartazione di inferiori di grado impossibilitati a resistergli.

L'atto illegittimo del presidente del consiglio è aggravato dalla sua precisa consapevolezza che l'affidamento era falsato fin dall'inizio. Falsa la qualifica del soggetto incaricato: non esiste il ruolo di consigliere regionale con incarico alla presidenza del consiglio. L'igienista dentale Nicole Minetti è per sua fortuna consigliera regionale ma per nostra fortuna non ha incarichi a Palazzo Chigi. Non solo. Il presidente del consiglio sapeva benissimo (e forse qualche telefonata può testimoniarlo) che la Minetti avrebbe in breve scaricato l'affidata a terza persona, accusata in seguito di aver addirittura tentato di prostituirla. Dunque l'affidamento è servito solo a far uscire la giovane arrestata da una situazione in cui la sua permanenza era temuta dal presidente del consiglio per sé stesso e non certo per lei.

Una storia grottesca che a fatica si sarebbe potuta immaginare in una farsa di Totò ha aperto virtualmente una crisi diplomatica con l'Egitto e ha esposto l'intero paese di fronte alla critica irridente di tutta l'opinione pubblica mondiale. Peggiora il quadro l'affermazione di Bossi: non doveva telefonare in Questura, era meglio se chiamava me o Maroni. Si può capire che la Lega abbia il bisogno di parare le conseguenze delle azioni dissennate del presidente del consiglio. E oramai non stupisce che il ministro per le riforme istituzionali le affronti come questioni di cortile.

Più volte ci siamo chiesti se Berlusconi sia più pericoloso o più ridicolo. Anche in questo caso si è costretti a scoprire come la sua posizione al vertice del potere politico trasformi il ridicolo in pericolo. E lascia 

esterreffatti che nel contesto attuale qualche giornale possa ancora prendere sul serio la possibilità di un contratto davanti al notaio tra Fini e Berlusconi: al primo la guida del governo, al secondo il Quirinale. Già chiunque dovrebbe ribellarsi all'idea che queste cariche possano essere il premio di un patto privato, ma ancora più grave è l'idea che anche un solo giornalista in Italia possa ancora pensare che un soggetto così indegno possa aspirare alla massima carica dello stato.

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