Signor Presidente, vorrei dire due parole sulla questione della riduzione del numero dei parlamentari. Voglio ricordare che questo obiettivo faceva parte del pacchetto bocciato nel referendum del 2006, benché già allora esistessero motivi di opinione pubblica che potevano illustrare la criticità del rapporto tra parlamentari e popolo.
Da cosa nasce il fatto che tutti i parlamentari, o quasi tutti, si sentono obbligati a presentare proposte per la riduzione del numero dei parlamentari stessi? C'è un qualche motivo di pensiero autocritico che fa sì che, all'interno delle Aule parlamentari, coloro che sono stati eletti con una legge che ha tutti i crismi dell'ingiustizia si sentono come sottoposti ad una sorta di critica immanente, intersoggettiva, anonima, plateale. Ognuno di noi sa di essere guardato con sfiducia, e quindi si approntano proposte di riduzione del numero dei parlamentari come una sorta di compensazione psicologica di massa. Il rapporto tra masse e potere ora è combinato in una maniera tale che le masse diffidano del potere. Noi impropriamente siamo considerati un potere, quindi in questo caso il potere accenna ad autolimitarsi.
Devo anche aggiungere che al riguardo esiste una riserva mentale assai diffusa, che voglio rendere esplicita perché emerge nelle conversazioni con moltissimi colleghi, cioè che, nello stesso momento in cui i parlamentari si sottopongono a questa sorta di autotortura del presentare proposte di riduzione del loro numero, in realtà molti di essi - forse la maggioranza - pensa, senza avere il coraggio di dirlo, che sarebbe meglio non farlo.
La riduzione del numero dei parlamentari è come una sorta di dettato etico proiettato sulla parete del Senato e, nello stesso tempo, un boccone da ingoiare con enorme difficoltà e, forse, se possibile, l'occasione per creare le condizioni perché non maturi questa decisione.
Nell'opinione pubblica molti si sono interessati a questo tema e c'è qualcuno che ha già scritto che di tutta questa riforma costituzionale non se ne farà nulla perché, alla fine, la strenua volontà dei parlamentari di non ridurre il loro numero (senza dirlo) farà sì che non si verifichi niente.
Questo è un lato dell'aspetto critico della riduzione del numero dei parlamentari. Ce n'è un altro, che invece è posto dai cittadini con cui capita di discutere e che, stranamente, nel momento stesso in cui discutono della riduzione del numeri dei parlamentari, qualche volta sono anche capaci di andare controcorrente.
A me è capitato in dibattiti pubblici, organizzati dal mio partito e da comitati di cittadinanza attiva, di trovarmi posto di fronte a questa obiezione: voi dite di voler ridurre il numero dei parlamentari, ma in realtà vi rendete conto che la riduzione del numero dei parlamentari può produrre una forte, incisiva riduzione delle possibilità di rappresentanza? Un numero ristretto è più facilmente rastrellabile da grandi formazioni e i partiti medi e piccoli rischiano di restare con scarsa udienza dentro questa competizione.
Qualcuno dei cittadini che prendono parte alla discussione (quando si discute con il pubblico si incontrano anche persone che si documentano, che ragionano, che non sono spettatori passivi) ci chiede se ci rendiamo conto che, se viene approvata una legge elettorale orientata in una direzione fortemente neocentralista, che favorisce le formazioni che si ammassano al centro, sommando la riduzione dei parlamentari e legge elettorale securitaria per i partiti che pensano di essere l'ago fondamentale della maggioranza, la rappresentanza politica delle cosiddette minoranze (ma anche di grosse minoranze), di parte cospicua dell'opinione pubblica può essere ridotta fino all'annichilimento.
Questo punto mi costringe a ricordare un'osservazione che viene reiterata negli ultimi tempi e che torna anche oggi in un articolo di Stefano Rodotà su «la Repubblica», circa il fatto che in questa discussione di riforma costituzionale avvenga nel silenzio pressoché totale della scena pubblica. Non c'è dibattito pubblico su questo e, purtroppo, eccetto rarissime eccezioni, i partiti non hanno minimamente pensato ad organizzare, con i loro canali, le loro forze e i loro riferimenti, un dibattito su questa riforma costituzionale fra i cittadini. Sottopongo alla vostra attenzione questa riflessione, a latere, come una sorta di memento che noi dovremmo tenere sempre presente fino alla fine. L'assenza della riflessione nel dibattito pubblico è un elemento importante perché è in questo confronto che noi possiamo esercitare una sorta di dialettica, di interlocuzione, convincere ed essere convinti.
Credo di aver espresso con due punti schematici le ragioni critiche che potrebbero giustificare la rinuncia alla riduzione del numero dei parlamentari. Non è un ragionamento paradossale, ma è quello che una forza politica consapevole deve poter esprimere quando affronta un tema così spinoso. Sappiamo tutti che le decisioni prese si radicano su un terreno molto problematico, in cui fino all'ultimo esiste la possibilità di dubitare. La ragione per cui il nostro partito in questo contesto, che ho illustrato volutamente in modo rafforzato, pone l'esigenza di una riduzione drastica del numero dei parlamentari è che ormai il discredito pubblico delle Assemblee parlamentari è arrivato a un punto tale - e noi stessi abbiamo costruito le condizioni perché a questo si arrivasse - da rendere ormai difficilissimo resistere a questa sorta di marea montante: la riduzione del numero dei parlamentari sulla scena pubblica appare come una sorta di colpo di sciabola incisivo per riuscire a risolvere le immense criticità delle Assemblee parlamentari.
Si può essere d'accordo o meno sul punto di partenza, ma una volta riconosciuto che siamo in una sorta di emergenza di opinione sulla validità delle Assemblee parlamentari, occorre avere la forza di trarne le dovute conclusioni. Una riduzione tenue, appena accennata, è irrisoria e irridente. In sostanza, ci rivolgiamo all'opinione pubblica dicendo che ridurremo il numero dei parlamentari, ma poi procediamo ad una riduzione ridotta al minimo, circa un sesto. Stando così le cose il Gruppo dell'Italia dei Valori, che non è il solo a sostenere questo punto di vista, ritiene occorra una scelta decisa, pur mantenendo intatto... (Il microfono si disattiva automaticamente).
PRESIDENTE. Continui, senatore Pardi.
PARDI (IdV). Signor Presidente, ho illustrato solo un emendamento, ma ne ho altri due o tre, fondamentali, sull'articolo 1, che intenderei illustrare.
Illustrerò ora gli emendamenti relativi all'eleggibilità di soggetti che abbiano subito condanne per delitti non colposi o sentenze definitive di condanna. A mio avviso, la questione più importante è quella di cui all'emendamento 1.231, che contiene il richiamo ad una riserva di legge per la disciplina del rapporto tra ineleggibilità, candidabilità e conflitti di interessi.
Nel nostro Paese abbiamo vissuto gli ultimi vent'anni in una condizione di inquinamento sostanziale a causa di un conflitto di interessi di dimensioni planetarie, ignoto a qualsiasi altra democrazia, che ha permesso l'ascesa al vertice del potere politico di un soggetto perfettamente ineleggibile. Secondo una legge del 1957, infatti, i titolari di concessioni di interesse pubblico non sono eleggibili. Tuttavia la Giunta per le elezioni ha ritenuto che, avendo il soggetto vinto le elezioni, vi fossero le condizioni: il danno però è stato irreparabile. Abbiamo vissuto in una condizione di minorità di fronte ad un potere extraistituzionale che, impossessatosi del potere politico, gestiva un potere sostanziale, dello stesso peso di quello istituzionale, con forti capacità di incidenza e di manipolazione.
Dobbiamo affrontare direttamente questa problematica. Infatti, nel momento in cui una riforma costituzionale ardisce attribuire poteri maggiori, significativi e penetranti ai soggetti titolari del potere politico, soprattutto nella persona del Presidente del Consiglio, non possiamo non toccare questo punto.
Bisogna prendere di petto la questione e superare una legge sul conflitto di interessi praticamente priva di incidenza e di significato (una legge di comodo, che risolve tutto tranne i conflitti di interessi), e stabilire, invece, una legge significativa su questo. Non possiamo pensare ad una riforma della Costituzione in questa direzione se non si disciplina con fermezza e con possibilità di esclusione i titolari dei poteri economici, finanziari e comunicativi e, in ogni caso, chi, trovandosi in condizione di gestire il potere politico, si troverebbe facilmente nella condizione di favorire i propri interessi personali. Interesse privato e interesse pubblico devono essere sempre separati. Con questo orientamento pensiamo ci si debba misurare.