I guai dell'Università vengono da lontano. Moltiplicazione delle sedi e dei corsi di laurea hanno banalizzato la didattica e impoverito la ricerca. L'aumento di concorsi e chiamate per associati e ordinari ha ridotto sensibilmente i concorsi a ricercatore e quindi indebolito il reclutamento di giovani.
Ma il rimedio della nuova legge ammazza il malato. Ora ai ricercatori invecchiati si prospetta la messa in esaurimento, mentre i nuovi ricercatori saranno sottoposti alla precarietà e alla chiamata diretta senza concorso pubblico, fatto che comporta una precisa violazione del dettato costituzionale.
La riproduzione del corpo docente viene troncata con taglio netto. La trasmissione della conoscenza viene impedita all'origine. La ricerca non viene finanziata. Il paese si appresta a diventare più analfabeta e meno capace di fronteggiare con creatività costruttiva la crisi economica globale.
Governo e maggioranza in mano a chi ragiona solo in termini di pubblicità non si preoccupano del problema sostanziale. Basta loro produrre spot efficaci per i nuovi analfabeti prodotti dalla televisione.
Stupisce invece l'inazione dei professori universitari di fronte allo smantellamento del loro mondo. Attanagliati dal senso di colpa per gli errori con cui hanno cominciato ad affondarlo? Rintronati come pugili suonati da un'azione governativa che non sanno contrastare? Indifferenti di fronte a una fine che non vogliono impedire? Difficile rispondere. Dovrebbero provarci loro in prima persona ma, a parte qualche debole e occasionale sostegno alla causa dei ricercatori e dei precari, non proviene dalla comunità dei docenti, con la forza necessaria, né un'analisi impietosa della realtà né una proposta efficace per affrontare la difficile situazione. I professori sono ancora in tempo ma bisogna che si decidano alla svelta.