In una lunga intervista a Giuliano Zincone sul Magazine del Corriere della Sera, Claudio Martini, presidente della Regione Toscana, fa una specie di outing. Rivela che solo tre mesi dopo il faticosissimo successo del centrosinistra nel 2006, sgomento per la mancata coesione del governo Prodi, telefonò al collega emiliano Errani per dirgli: facciamolo cadere. Per nulla stupito Errani avrebbe risposto: non c’è alternativa. Nel rapido botta e risposta dell’intervista non si capisce quale dei due significati possibili si debba accogliere: se non c’era alternativa a Prodi o alla sua caduta. Errani potrebbe chiarire.
Poiché si tratta di intervista dal tono colloquiale si può ammettere che Martini fosse incline a dare di sé un ritratto familiare e disinvolto. Ma ripromettersi di far cadere il governo della propria maggioranza parlamentare (ancorché scarsa e rissosa) sembra disinvoltura davvero speciale.
Per cautela si deve subito aggiungere che non sarà per l’intesa tra Martini ed Errani che il governo Prodi è poi caduto. Nel centrosinistra ci sono parecchi altri soggetti che potrebbero rivendicare in merito responsabilità più dirette e stringenti. Resta stupefacente che uno dei massimi esponenti della classe dirigente di centrosinistra possa esporre con la massima tranquillità un’intenzione simile. E farla passare quasi come una manifestazione di lungimiranza.
Infatti nelle battute seguenti c’è anche un abbozzo di motivazione: la coalizione era talmente sgangherata tra centristi, riformisti e sinistra radicale che prolungare la sua esperienza avrebbe solo prodotto un suo infinito logoramento.
Il risultato brillante e risolutivo della sua caduta non si è fatto attendere: una sconfitta elettorale disastrosa, la scomparsa della sinistra dal Parlamento e una coalizione macerata dalla debolezza del Partito Democratico. Il guadagno è evidente: a logorarsi non è più la maggioranza ma la minoranza. Qui si è costretti a sfiorare un tema ormai consueto: secondo i teorici della sconfitta necessaria, la sua debolezza sarebbe tutta da imputare all’alleato IdV. Resta a loro l’onere della prova: dimostrare che da solo il PD possa risalire al 50 % più uno.
Ma, riprendendo il filo del discorso, non si può fare a meno di rilevare una preoccupante continuità storica. Infatti anche nel 1998 il precedente governo Prodi fu fatto cadere dai dissidi interni alla sua stessa maggioranza. Secondo la vulgata più diffusa il responsabile fu Bertinotti, il quale dichiarò che puntava a equilibri più avanzati (quanto lo fossero si vide subito dopo: il governoD’Alema sostenuto da Cossiga e Mastella). Ma Marini dopo un po’ fece outing: se Bertinotti era stato l’esecutore i mandanti erano lui stesso e D’Alema.
Cosa concluderne? Il centrosinistra prima fa una fatica improba a vincere contro un avversario che ha, nel migliore dei casi, più della metà del sistema informativo nelle sue mani: quando è all’opposizione il centrodestra ha quattro telegiornali su sei. Subito dopo la massima prova di abilità della classe dirigente di centrosinistra consiste nel far cadere il proprio governo e consegnare il paese nelle mani del campione dell’interesse privato. E dopo aver perso teorizza che potrà di nuovo vincere solo se saprà rinunciare alle alleanze. Dunque solo una minoranza potrebbe esercitare la vocazione maggioritaria. La prova è già stata fatta: la vocazione maggioritaria ha già garantito un destino di minoranza. Per quanto tempo?