Arte dell’autocritica. Subito dopo il voto in tanti hanno insistito su due punti. Primo, la distorsione della volontà popolare tramite la trasformazione maggioritaria dei voti in seggi: chi vince col 40% dei voti ottiene il 60% dei seggi; così una vittoria di misura diventa successo travolgente. Secondo, l’idiozia di tutti i gruppi alternativi al centrodestra che rinunciano a priori a una loro coalizione, si presentano separati e in concorrenza tra loro. Da qui la necessaria sconfitta.

Tutto vero, ma resta fuori dal ragionamento la sua origine sociale. La cui vera causa sta nel mutamento della società e nell’ormai almeno ventennale erosione della base sociale che sorreggeva lo schieramento di centrosinistra, giunto al voto ignaro di galleggiare sul vuoto.
Perdere in Toscana 10 collegi uninominali su 13, vedere a Stazzema più votato di tutti il partito di Meloni è uno schiaffo che costringe alla meditazione.

Ma ciò che la stampa progressista e alcuni politici di centrosinistra ora ammettono si sapeva da molto tempo. Vent’anni ci separano dall’allarme lanciato dai Girotondi del 2002. Ma l’incubazione è ancora più lunga e risale alla fase di smantellamento delle grandi fabbriche, alla moltiplicazione della fabbrica diffusa, alla dislocazione delle attività produttive nei mercati del lavoro a basso costo, alla trasformazione della massa solidale del lavoro operaio nel volgo disperso che nome non ha del moderno lavoro precario.

Qui la data iniziale di riferimento può essere addirittura la manifestazione dei 40.000 quadri Fiat (1980!) contro la lotta operaia e la conflittualità urbana. Da allora la composizione sociale -che esprimeva antagonismo radicale e alle scadenze elettorali non poteva che votare partiti di centrosinistra- è stata rovesciata in una pluralità di ceti frazionati, separati, non comunicanti e in virtuale concorrenza reciproca.

I partiti di centrosinistra, e in particolare il Pd che ne era l’esponente maggiore, hanno compensato la dissoluzione della loro base sociale con la solida vita nei governi degli enti locali e regionali e, a partire da Prodi, anche del governo nazionale. Di contro: riferimenti sociali sempre più evanescenti, legami sempre meno stretti, mondi alla fine distaccati.

I campanelli d’allarme sono stati numerosi, sia nella dialettica sociale e culturale, sia sullo stretto piano elettorale: i tirapiedi di Berlusconi eletti nel collegio di Mirafiori! Alla lunga il consenso si è ritirato nella ridotta delle regioni rosa ma ora anche quella salvezza temporanea viene meno e il dramma precipita.

E la soggettività sociale che fine ha fatto? E’ scomparsa dalla scena politica e si è diffusa nei cento rivoli dell’azione sul territorio. Volontariato di ogni genere, associazionismo, comitati, gruppi di quartiere, iniziative culturali, colloqui interetnici, sostegno agli immigrati, occupano il tempo di coloro che erano disponibili per l’attività politica e che oggi non vi trovano soddisfazione né speranza. A questa dispersione si può forse attribuire anche la presenza intermittente degli studenti, a parte rare eccezioni di robuste azioni collettive. Ogni tanto qualche grande manifestazione nazionale, vissuta come momento di svolta e qualche tempo dopo ricordata per il fascino illusorio.

Si sarebbe potuto pensare che tutta quella generosa energia potesse dedicarsi a un partito di autentica sinistra in grado di indicare la via della redenzione al più grande e moderato Pd. Niente di tutto questo. I tentativi in questo senso sono stati ripetuti e molteplici e hanno solo frazionato le forze. Comunque il risultato finale è stato marginale e privo di efficacia.

Questo ora è il momento: partito senza società, società senza partito. E’ questione che non si risolve con un nuovo segretario, di qualsiasi sesso sia. E se il ripensamento complessivo invocato sarà esercitato da chi ha prodotto il disfacimento l’insuccesso è assicurato. Forze vive tocca a voi: se ci siete fatevi avanti.