Ricerca senza animali, Hartung: «La scienza è pronta, i governi ancora no»

di Alessandro Sala - corriere.it - 26/03/2020
Il professore della Johns Hopkins Bloomberg: «È solo questione di business, le aziende ne farebbero volentieri a meno»

Le aziende farmaceutiche - perlomeno quelle che sostengono in proprio i costi della ricerca - hanno tutto l’interesse ad abbandonare la sperimentazione animale. Se non proprio per una questione di etica, quanto meno per un discorso di business. Perché sperimentare sugli animali comporta costi e tempi lunghi che male si combinano con il mercato – perché i farmaci salvano la vita, ma sono pur sempre prodotti commerciali e con il mercato si devono necessariamente confrontare – e con la rapidità di cambiamento che esso oggi richiede.

Thomas HartungThomas Hartung

Thomas Hartung non ne ha alcun dubbio. Professore alla Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health di Baltimora, fra il 2002 e il 2008 è stato a capo del Centro europeo per la convalida dei metodi alternative (Ecvam) della Commissione Europea. «Basterebbe un dato – spiega Hartung al Corriere.it -: fra il 2005 e il 2008 in tutta l’Ue il ricorso alla sperimentazione animale nell’industria farmaceutica è calato motu proprio del 25%. Ogni volta che le aziende possono passare ai metodi alternativi, semplicemente lo fanno». Perché sono convenienti. Perché danno risultati più efficaci. E perché li danno in tempi più stretti. Lui sgombra subito il campo da ogni possibile equivoco e spiega che a suo parere, «bisognerebbe sempre avere validi motivi per sacrificare esseri viventi». E che «visto che i metodi alternativi esistono è doveroso utilizzarli».

Professor Hartung, i metodi alternativi sono visti spesso come pretesto per una battaglia solo etica o ideologica. Perché farvi ricorso?
«Perché la sperimentazione animale non dà risposte abbastanza rilevanti per l’applicazione sull’uomo. Nel mio campo, la tossicologia, gli esperimenti su topi e ratti danno ad esempio una capacità predittiva su se stessi del 6o%; sull’uomo, per gli effetti delle droghe, del 43%. Troppo poco per compiere valutazioni efficaci. Ma questo non è il solo aspetto. Ce ne sono altri due a cui le aziende farmaceutiche sono particolarmente sensibili: costi e tempi».

Vale a dire?
«I test che oggi si compiono sono troppo costosi. Testare il cancro sugli animali costa più di un milione di euro, una cifra enorme, che non ci possiamo permettere. E poi la durata: ogni ciclo di studio degli effetti dei tumori sui topi dura circa quattro anni, ma il cambiamento dei metodi di cura è molto più veloce e richiederebbe una maggiore reattività. Soprattutto considerando la quantità di sostanze che devono essere testate e le loro innumerevoli combinazioni: basti pensare che spesso le terapie sono basate su cocktail di farmaci. Bisogna pensare a costi più bassi e tempi più stretti, soprattutto per quei prodotti di cui già conosciamo molto. I metodi alternativi, e sostanzialmente il ricorso a modelli virtuali possibili grazie alle nuove tecnologie o lo studio su cellule staminali umane che danno ottimi risultati nello studio di biologia e tossicologia, rispondono a questi criteri».

Per quale motivo allora si fa così fatica a prenderli in considerazione?
«È sempre un problema di mercato. Le diverse legislazioni nazionali prevedono test sugli animali obbligatori e i farmaci non ricevono autorizzazioni se questo passaggio viene saltato. Le aziende di conseguenza sono state costrette ad investire in questo campo. La legge purtroppo fa riferimento a metodi superati, non è stata capace di adeguarsi ai tempi».

Chi critica i metodi alternativi fa notare che è grazie ai test sugli animali che oggi esistono farmaci che salvano la vita all’uomo…
«E’ vero. La sperimentazione animale ha dato un grande contributo alla scienza e il mondo è più sicuro grazie a questi esperimenti. Ma ad esempio in tossicologia si usano gli stessi metodi di 50 anni fa, quando io ero ancora all’asilo nido. Nel frattempo molto è cambiato grazie alla tecnologia e alle conoscenze che abbiamo oggi e un tempo non avevamo. Perché decidere di restare indietro di 20, 30 o 40 anni?».

Il mondo scientifico però non è unanime su questo punto ...
«Anche a livello scientifico non vengono ancora valutati fino in fondo tutti gli aspetti delle alternative. Ad esempio non affrontiamo abbastanza i limiti degli esperimenti sugli animali. Spesso i ricercatori parlano dei risultati stupendi dei loro esperimenti, ma non degli ostacoli che incontrano. Già tra ratti e topi ci sono differenze, figuriamoci tra ratti e uomo, e per questo i risultati non sono così rilevanti. Quel che è certo è che non esiste un metodo perfetto. I metodi alternativi hanno debolezze e così quelli basati sulla sperimentazione animale. Dobbiamo immaginare una combinazione fra loro e arrivare ad utilizzare sempre meno animali. L’esempio è quello delle cellule staminali umane, con cui possiamo studiare davvero la fisiologia dell’uomo e non qualcosa che può essere simile. Il processo dipende evidentemente dalle leggi, ma riguarda anche la scienza che sempre di più deve arrivare a capire i limiti dei metodi vecchi che ha fino a qui utilizzato».

Le istituzioni sono pronte?
«Io ho lavorato con la Ue che porta avanti il programma forse più grande del mondo per lo sviluppo dei metodi alternativi. Ma bisogna ottimizzare il processo per la convalida e aiutare anche finanziariamente la crescita dei nuovi metodi. Perché senza la forza del mercato e la standardizzazione è molto difficile introdurre qualcosa di nuovo. Ci sono grandi differenze tra Europa e Stati Uniti: da una parte e dall’altra dell’oceano si investono cifre analoghe, ma a livello europeo non c’è un coordinamento capace di razionalizzare ricerche e risultati. Negli Usa ci sono grandi agenzie che lavorano insieme ad un programma di 150 milioni di dollari per arrivare ad una concezione differente. Dall’alto si decide cosa serve, e dal basso i laboratori si mettono al lavoro per svilupparlo».

Lei vede sensibilità attorno a questo tema? Dopotutto l’empatia umana per gli animali è molto variabile. Tutti amiamo cani e gatti, ma se non si tratta di Mickey Mouse o del Remy di Ratatouille difficilmente pensiamo con simpatia ad un topo…
«Un numero sempre maggiore di persone è contraria alla sperimentazione animale e sono molti quelli che si pongono dei dubbi. Ma qui negli Usa l’aspetto etico è meno importante che da voi. Se qui si studiano i nuovi metodi per non utilizzare animali è solo perché non si è contenti dei risultati che i vecchi metodi danno. Sono questi limiti che ci impongono di voltare pagina, non è solo un discorso di empatia per un ratto».

Quindi alla fine tutto si riduce ad un aspetto economico?
«Le ditte farmaceutiche utilizzano sempre di meno animali e sono molto competitive in questo. Lo sviluppo di una nuova medicina ora costa mediamente un miliardo e 400 milioni di euro. Fra 2005 e 2008 tutte le ditte farmaceutiche europee hanno ridotto il 25% nell’uso di animali a parità di spesa. E’ un processo molto importante, tanti studiano oggi metodi più veloci basati su cellule umane e solo alla fine introducono un po’ di sperimentazione animale».

Lei sembra fiducioso…
«E’ un processo, non si può cambiare dall’oggi al domani. Ma si può accelerare. Ci sono malattie molto rare per le quali nessuna ditta può sviluppare qualcosa in modo classico perché non ci sono abbastanza pazienti per ottenere uno sviluppo rapido. Quindi si sperimenta direttamente sui pazienti e i risultati non mancano. Questo non vuol dire mettere a repentaglio vite. Si fa ricorso al microdosing, ovvero a sostanze usate in quantità limitate che non comportano rischi, e poi via via si va oltre. Bisogna farlo laddove non possiamo permetterci di aspettare i risultati dei test animali. Più del 50% delle medicine sono anticorpi per l’uomo e non funzionano sugli animali. E viceversa ci sono sostanze che hanno effetti dannosi e non funzionano sugli animali ma sono efficaci per l’uomo. Se ci si basasse solo sui test per animali non potremmo usarle. L’esempio è quello della comune aspirina: provoca malformazioni sugli embrioni in moltissimi animali ma sull’essere umano no».

Come se ne esce?
«Non sempre facciamo le cose giuste per prendere decisioni giuste. In questo campo non esiste il concetto di bianco o nero. Bisogna aprirsi e valutare. L’importante è trovare una strada in questa nebbia».

 

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