Ahi, serva Italia…

di Barbara Fois - Liberacittadinanza - 04/11/2014
Dal processo Cucchi alla deposizione di Napolitano sulle trattative Stato-mafia: ecco il quadro deprimente di un paese alla frutta

 Non so se capita solo a me, ma è un po’ di tempo che soffro di intolleranze… non parlo di glutine o lattosio, parlo di avvenimenti,facce, discorsi, teatrini della politica, trasmissioni su e con politici, proclami fasulli, promesse ridicole, demagogie stagionate, personaggi sputtanati che fanno i moralisti… insomma tutto il circo di questo paese di corrotti da una parte e di sprovveduti dall’altra. Non lo reggo più.

Un tempo cambiavo canale quando la faccia di terracotta del cavaliere faceva capolino in qualche canale, durante una qualsiasi tramissione o telegiornale. Adesso non reggo più la vista di nessuno e non solo del grugno di Renzi, che ormai sulla propria immagine è al delirio, tanto da aprire una inchiesta per una sua foto che ha girato sul web, in cui appare un po’ intronato… come se fosse colpa della foto!

Selfie Renzi

No, non voglio scrivere di questo. Né di lui, né di quell’altro scoppiato dell’ex comico genovese che sostiene che la Mafia è stata corrotta dalla finanza (ma si può?!?), e neppure di ministri inconcludenti e incompetenti esattamente quanto quelli che li hanno preceduti e tuttavia come gli altri convinti di essere il sale della terra. Non li reggo più. Nemmeno loro.

Voglio parlare di due avvenimenti recentissimi e carichi di aspetti inquietanti.

Parlo della incredibile, indecente sentenza di assoluzione per i poliziotti e i medici del carcere in cui il povero Stefano Cucchi è stato seviziato ed è morto. Come si fa a ignorare le terribili immagini di quel povero corpo tumefatto e dire che nessuno è colpevole di quello scempio? Per non dire del disgustoso comunicato del sindacato di polizia Sap: “Tutti assolti, come è giusto che sia - ha affermato Gianni Tonelli, segretario generale della Sap - In questo Paese bisogna finirla di scaricare sui servitori dello Stato le responsabilità dei singoli, di chi abusa di alcol e droghe, di chi vive al limite della legalità. Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze. Senza che siano altri, medici, infermieri o poliziotti in questo caso, ad essere puniti per colpe non proprie".

 Ma ci rendiamo conto della gravità di queste parole? Cosa vorrebbe dire: che il povero Cucchi si è picchiato da sé? E che nessuno era tenuto a cercare di salvarlo, visto che chi beve o si droga ha già abdicato alla propria salute e dunque è come avesse rinunciato alla vita? Non so proprio come interpretare una frase così ripugnante, ma è certo che siamo proprio al delirio di onnipotenza! Ormai non ci sono più regole, non c’è rispetto per nessuno e per nulla e chi ha anche uno straccio di potere pensa che tutto gli sia permesso. C’è solo da augurarsi di non finire mai sotto le grinfie di quei poliziotti e di quei medici e infermieri.

Ma è anche dell’altra sera il caso più grave e più inquietante: nell’ambito del procedimento giudiziario scaturito dall’inchiesta sui rapporti fra Stato e mafia, è stato sentito anche il presidente della repubblica,  Giorgio Napolitano. La sua audizione è avvenuta al Quirinale, senza la presenza né di pubblico né di giornalisti, solo della corte d’Assise di Palermo (il presidente Alfredo Montalto, il giudice a latere Valeria Bergamini e gli otto giudici popolari), cinque pubblici ministeri (ma potevano fare domande solo l’aggiunto Teresi e il sostituto Di Matteo) e gli avvocati di fiducia delle sette parti civili e dei dieci imputati.

 La trascrizione della sua deposizione è stata subito messa online, in un patetico tentativo di “trasparenza”, ma, ovviamente, non c’è niente di interessante, nulla che non fosse già noto o che non fosse scontato: nessuna rivelazione scioccante, nessuna verità nascosta. E’ come da copione: tutto va ben madama la marchesa, non è successo niente. Tanto che nella sua deposizione si parla sempre e solo di ricatto da parte della mafia, mai di trattativa: questa parola non viene nemmeno menzionata. Eppure non se la sono inventata i giornalisti.

Ma nonostante questi evidenti tentativi di negare l’esistenza di infamanti accordi, c’è chi - come il procuratore di Palermo Francesco Messineo - sostiene che ci sia stata realmente una trattativa e nemmeno troppo nascosta. E lui non è uno qualsiasi, è un magistrato che indaga su questa storia. Ma vediamo un po’ come e perché si sarebbe arrivati a un accordo così ignobile e che gronda del sangue di tanti fedeli servitori dello Stato.

Tutto è cominciato dopo il maxi processo alla mafia che durò dal 10 febbraio 1986 al 30 gennaio 1992 ( giorno della sentenza finale della corte di Cassazione). Il processo era stato istruito dal  pool anti-mafia, ideato dal giudice Rocco Chinnici e poi – dopo il suo assassinio, nel 1983 – guidato dal giudice Antonino Caponnetto. Del pool facevano parte Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello, Leonardo Guarnotta, ed in un secondo tempo Giacomo Conte e i poliziotti Ninni Cassarà e Beppe Montana. Questo gruppo di magistrati e poliziotti riuscì a dare un colpo mortale alla mafia e l’organizzazione reagì con violenza; dei componenti del pool ne furono uccisi 4 su 8: oltre infatti a Falcone e Borsellino, furono trucidati anche Ninni Cassarà e Beppe Montana nel 1986.

Ma le morti più eclatanti tuttavia avvengono dopo la sentenza definitiva del 1992 e sono quelle di Falcone e Borsellino: da questo momento si scatena una offensiva massiccia e comincia l’escalation degli attentati mafiosi. Il 1993 è un altro anno terribile, quello delle auto bombe in via Fauro a Roma, in Via dei Georgofili a Firenze e, nella notte tra il 27 e il 28 luglio del 1993,  sia in Via Palestro a Milano, che a San Giovanni Laterano e San Giorgio al Velabro a Roma.

C’è però da tener presente che nello stesso periodo è successo un altro fatto importante: nel febbraio del 1992 prende l’avvioTangentopoli, quella inchiesta sulle collusioni fra mondo politico e finanziario che è stata chiamata “Mani pulite”.

La DC e il PSI stanno andando in pezzi e tutto il mondo politico è al minimo storico della propria credibilità e manifesta una fragilità e una debolezza inimmaginabili prima. Per contro la mafia sembra ancora più forte ed è qui che nascono le premesse di un accordo fra politica e mafia e mette radici il cosiddetto papello, cioè una sorta di contratto scritto fra stato e mafia, in cui la mafia promette di smetterla con gli attentati, se il cosiddetto articolo 41 bis sul carcere duro ai mafiosi viene ritirato.

Il periodo cruciale dovrebbe coincidere con quello dell’insediamento del governo Ciampi ( che rimase in carica dal 28 aprile 1993 al 10 maggio 1994, fino alle elezioni vinte da Berlusconi), in cui vengono confermati Giovanni Conso alla Giustizia e Nicola Mancino all’ Interno e viene revocata la legge 41 bis per 140 detenuti minori. E’ solo un caso? Una coincidenza? E perché allora Ciampi parlò di tentativi di colpi di stato? E perché Loris D’Ambrosio Consigliere del Presidente della Repubblica per gli Affari dell’Amministrazione della Giustizia, in una sua lettera di dimissioni nel 2012  manifesta tra l’altro il timore di poter essere stato a quel tempo «utile scriba per indicibili accordi»? Di quali indicibili accordi parla e fatti con chi? Non ci vuole la capacità deduttiva di uno Sherlock Holmes per intuirlo. Ma leggiamo bene tutto il brano della lettera di dimissioni:

“Non ho mai esercitato ingerenze o pressioni che potessero favorire il senatore Mancino”. E’ un passaggio cruciale della lettera scritta il 18 giugno 2012 da Loris D’Ambrosio, ex consigliere giuridico del Quirinale, al presidente Giorgio Napolitano “Lei sa di ciò che ho scritto anche di recente su richiesta di Maria Falcone. E sa che in quelle poche pagine non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989-1993 che mi preoccupano e fanno riflettere; che mi hanno portato a enucleare ipotesi – solo ipotesi di cui ho detto anche ad altri – quasi preso anche dal vivo timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”

La sua morte per infarto avvenuta solo poco tempo dopo questa “crisi di coscienza”, è stata considerata da molti con sospetto: il giudice Ingroia, ad esempio, si è domandato se sia veramente deceduto a seguito di un infarto e come mai non sia stata fatta una autopsia ed anche Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, ha espresso "forti sospetti" su questa morte, Quanto a Marco Travaglio, ha accusato Napolitano di aver usato D'Ambrosio "come scudo umano e parafulmine".

A pensarci bene anche il giudice Gabriele Chelazzi morì d’infarto, a 59 anni, il 17 aprile 2003. Anche lui si era occupato della trattativa stato-mafia. Era riuscito a far condannare, per quella terribile campagna di guerra a colpi di autobombe, i boss mafiosi Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Giuseppe Graviano, Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro e i loro feroci picciotti. La cupola intera, insomma.

Caterina Chelazzi, la vedova del giudice,  ha ricordato l’audizione di suo marito in commissione antimafia il 2 luglio 2002, nel corso della quale il magistrato fiorentino espose una serie di fatti e di dubbi che lasciavano ipotizzare l'esistenza di una trattiva fra Stato e mafia. "L’incontro durò 15 minuti, poi venne interrotto perché i parlamentari avevano impegni in Senato. Il presidente Roberto Centaro ringraziò Gabriele, disse che aveva fornito un quadro interessantissimo, che avrebbe comportato "audizioni molto lunghe e approfondite". Invece Gabriele non fu più chiamato".

E per citare un’altra morte dubbia: due anni fa, il 24 luglio 2012,  morì anche Michele Barillaro, che si era occupato, quando era giudice a Nicosia (Enna) e Caltanissetta, dei processi Falcone e Borsellino. Aveva redatto, tra le altre, la sentenza nel processo a Mariano Agate e altri 26 imputati nel cosiddetto “Borsellino ter”, relativo alla strage di via d'Amelio e la sentenza 10/03 nel processo a Totò Riina e ad altri sei imputati relativo all'attentato dell'Addaura contro Giovanni Falcone. Barillaro è morto in un incidente di macchina in vacanza in Namibia, in Africa: un pullman gli è arrivato addosso. Una decina di giorni prima dell’incidente aveva ricevuto minacce di morte in una lettera anonima recapitata alle redazioni fiorentine di due quotidiani - fra cui La Nazione – e a quella dell'Adn-kronos. Nella lettera, si sottolineava il fatto che al giudice era stata tolta la scorta.

Ma torniamo alla deposizione di Napolitano: prima di tutto come mai il presidente della repubblica è finito in questa inchiesta così spinosa? A quanto sembra è stato coinvolto nel processo a causa delle telefonate fatte a lui e al suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio da Nicola Mancino, che era ai tempi delle stragi il ministro dell’Interno. Pare che in queste telefonate fatte tra il 2011 e l’inizio del 2012 ( e poi distrutte per volontà di Napolitano) reclamasse un intervento del Quirinale per un fattivo coordinamento di varie indagini in corso sulla presunta trattativa con la mafia, visto che in una di esse – quella della Procura di Palermo – lui era sospettato di avere in quale modo avallato o coperto traffici oscuri.

C’è qualcosa di inquietante nelle ripetute telefonate di Mancino, al di là del contenuto delle stesse ( in cui soprattutto metteva in croce quel povero D’Ambrosio che faceva da filtro a Napolitano e continuava a dirgli con imbarazzo che non si poteva far nulla). L’ex dc si rivolgeva a chi poteva salvarlo? Ma in questo caso la domanda è: minacciando cosa? O voleva solo condividere una responsabilità, visto che Napolitano era stato eletto nel 1992 presidente della Camera e la logica era soltanto quella di “muoia Sansone con tutti i filistei”? Mancino infatti sapeva di essere intercettato, dunque telefonare al Quirinale con l’insistenza con cui lo ha fatto non poteva che inguaiare Napolitano, cosa che poi è puntualmente successa, perchè l’attenzione si è spostata completamente sul presidente della Repubblica, stornando l’interesse dalle eventuali responsabilità di Mancino.

A questo proposito però va ricordato che Mancino vide poco prima del suo assassinio Paolo Borsellino nel suo ufficio al Viminale (era allora ministro degli Interni, come dicevamo) e che era presente anche Bruno Contrada, condannato in seguito in via definitiva a 10 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa.

Borsellino uscì dall’ufficio così sconvolto da tenere in mano due sigarette accese, come testimoniò un suo amico e collaboratore. Mancino in seguito sostenne di non ricordare neppure di averlo incontrato.

Quando due anni fa vennero fuori le intercettazioni telefoniche, il povero D’Ambrosio ebbe paura che il suo lavoro svolto al Ministero della Giustizia nella lontana stagione delle stragi di mafia, potesse essere stato ed essere ancora scambiato per quello – come abbiamo giò riportato -  di “un ingenuo scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi” fra pezzi dello Stato e di Cosa Nostra. “Accordi” fra i quali gli inquirenti palermitani includono, nella loro ricostruzione dei fatti e nell’impianto d’accusa, il mancato rinnovo del trattamento di carcere duro per alcune centinaia di detenuti di mafia, come abbiamo scritto prima. Un mancato rinnovo deciso tuttavia non dall’allora ministro dell’Interno, appunto il democristiano Mancino, che non ne aveva la competenza, ma dal guardasigilli Giovanni Conso. Che se n’è poi assunto in pieno la responsabilità senza perà finire davanti al tribunale dei ministri: misteri della logica politica di questo paese. O forse frutto di più potenti coperture.

Sotto processo, ma non al tribunale dei ministri, è finito invece Mancino. Che per difendersi è però arrivato a un autentico autogol mediatico, pretendendo – come avevano fatto i boss mafiosi Riina e Bagarella - di presenziare all’audizione di Napolitano. Sta affondando, ma non vuole farlo da solo: annaspando ha cercato di aggrapparsi e di tirar giù con sé la massima carica dello Stato: perché? E’ un ultimo atto di una demolizione sistematica dell’immagine dello Stato? O la ricerca di solidarietà da parte di Napolitano che nel 1992 era, come dicevamo, il presidente della Camera?

E’ comunque davvero sconfortante che questo atteggiamento distruttivo venga da chi ha ricoperto tanti ruoli importanti, non solo come ministro dell’Interno ma anche come vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, nonchè presidente del Senato, ma ci fa capire meglio in che mani siamo.

Comunque, tornando alla deposizione di Napolitano: sui suoi rapporti con D’Ambrosio Napolitano è stato evasivo «Lei ha mai avuto sentore di queste inquietudini del consigliere D’Ambrosio per quelle attività del periodo 89-93?» è stato chiesto al Capo dello Stato. «No, io ho constatato de visu il suo profondissimo stato di ansietà e anche di indignazione, perché era un uomo che aveva dedicato tutta la sua vita al servizio dello Stato», è la risposta di Napolitano, che ha descritto D’Ambrosio come un uomo in uno stato di «esasperazione», «amareggiato perché vedeva mettere in dubbio la sua lealtà di servitore dello Stato».

Secondo Napolitano la sua era la lettera  di un uomo «sconvolto». E l’annuncio di dimissioni contenuto all’interno fu per Napolitano un «fulmine a ciel sereno». Secondo Napolitano D’Ambrosio, visto il «rapporto di grande considerazione» che lo legava a lui, aveva il timore che le intercettazioni delle sue telefonate con Mancino pubblicate dai giornali, potessero «tendere a coinvolgere anche il Capo dello Stato». 

Dunque tutto a posto? Il povero D’Ambrosio soffriva solo di nervi? Era soltanto un po’ stressato e depresso? Non c’è dunque mai stata una trattativa fra mafia e Stato? Ehh, peccato che il procuratore di Palermo Francesco Messineo, come dicevamo, interrogato alla Camera il 17 luglio 2012, affermi che la trattativa tra lo Stato e la mafia "c'è stata ed è stato reale”. Ne sapremo mai di più? Difficile crederlo.

A questo punto mi sento di condividere in toto le parole del giornalista di Repubblica Attilio Bolzoni, quando ha scritto, nel 2013 “ Io ho quasi 60 anni e non riesco a sapere la verità. Non so chi ha ucciso Piersanti Mattarella, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino. Non so chi ha messo con i mafiosi le bombe a Roma, Firenze e Milano. Io rispetto moltissimo il lavoro dei magistrati ma non posso accontentarmi della verità giudiziaria. Io credo che da quando esiste l’unità di Italia ce ne siano state tante, di trattative fra Stato e mafia. E credo che i pentiti di mafia abbiano detto tutto quello che sanno. Ora servirebbe un pentito di Stato.”

Poteva essere lei, Presidente Napolitano. Peccato.

 

Barbara Fois

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