Dopo 36 anni il caso Moro riserva ancora delle sorprese. Tre giorni fa il procuratore generale di Roma Luigi Ciampoli ha chiusa e archiviata l’inchiesta, che aveva avocato a sé, sulla misteriosa Honda blu, presente al massacro di via Fani, in cui fu sterminata la scorta di Aldo Moro.
Per chi non ricordasse a cosa ci si riferisce, è bene rinfrescare la memoria: la mattina del 16 marzo 1978 all’incrocio fra via Fani e via Stresa, a Roma, la macchina in cui viaggiava Aldo Moro e quella della sua scorta furono tamponate e intrappolate da quelle di un commando di BR, che sequestrò Moro e sterminò gli uomini della sua scorta. Si parlò delle macchine dei brigatisti, che del resto furono abbandonate sul posto, ma molti negarono la presenza di una moto Honda blu, che sparò invece su un passante - l’ingegner Alessandro Marini - fortunatamente mancandolo, ma crivellando di colpi il parabrezza del suo motorino.
Perché molti negarono l’esistenza sul posto del massacro di questa moto blu? E perché adesso si archivia l’inchiesta che la vedeva di nuovo al centro dell’attenzione? Come mai, ma soprattutto perché si parla ancora oggi, nel 2014, della Honda blu?
L’inchiesta sulla Honda era stata aperta circa 3 anni fa dalle rivelazioni dell’ex ispettore di PS Enrico Rossi. L'ispettore Rossi – una vita all’antiterrorismo, ora in pensione – ha rivelato all’agenzia giornalistica Ansa: “Tutto è partito da una lettera anonima scritta dall’uomo che era sul sellino posteriore dell’Honda in via Fani. Diede riscontri per arrivare all’altro, quello che guidava la moto”. Ma chi inviò quelle righe svelò anche un dettaglio inquietante: gli agenti dei SS presenti sul luogo della strage avevano il compito di proteggere le Br da disturbi di qualsiasi genere e che egli stesso era un agente. Dipendevano tutti dal colonnello del Sismi Camillo Guglielmi anch’egli presente in via Fani la mattina del 16 marzo 1978.
l’ex ispettore Rossi
La lettera di cui parliamo arrivò nell’ottobre 2009 al quotidiano La Stampa di Torino. Ed eccone il testo: “Quando riceverete questa lettera, saranno trascorsi almeno sei mesi dalla mia morte come da mie disposizioni. Ho passato la vita nel rimorso di quanto ho fatto e di quanto non ho fatto e cioè raccontare la verità su certi fatti. Ora è tardi, il cancro mi sta divorando e non voglio che mio figlio sappia. La mattina del 16 marzo ero su di una moto e operavo alle dipendenze del colonnello Guglielmi, con me alla guida della moto un altro uomo proveniente come me da Torino; il nostro compito era quello di proteggere le Br nella loro azione da disturbi di qualsiasi genere. Io non credo che voi giornalisti non sappiate come veramente andarono le cose ma nel caso fosse così, provate a parlare con chi guidava la moto, è possibile che voglia farlo, da allora non ci siamo più parlati, anche se ho avuto modo di incontralo ultimamente…”.
L’anonimo estensore della lettera forniva elementi per rintracciare il guidatore della Honda: il nome di una donna e di un negozio a Torino. “Tanto io posso dire, sta a voi decidere se saperne di più”. Il quotidiano all’epoca passò alla Questura la missiva per i dovuti riscontri.
Sul tavolo di Rossi la lettera arrivò nel febbraio 2011 in modo casuale. Non era protocollata e non vennero fatti accertamenti. Ma gli indizi per risalire al presunto guidatore della Honda di via Fani erano precisi. Inoltre quell’uomo - secondo la testimonianza di Alessandro Marini che lo aveva visto - aveva tratti del viso duri, scavati e asciutti, tali che ricordavano quelli di Eduardo De Filippo. Dunque se ne aveva anche una descrizione fisica, ma all’epoca niente fu fatto per rintracciarlo, di contro dopo molte minacce telefoniche il povero Marini se ne andò in Svizzera.
“Non so bene perché – racconta Rossi – ma questa inchiesta trova subito ostacoli. Chiedo di fare riscontri ma non sono accontentato. L’uomo su cui indago ha, regolarmente registrate, due pistole. Una è molto particolare: una Drulov cecoslovacca; pistola da specialisti a canna molto lunga, di precisione. Assomiglia ad una mitraglietta”.
“Per non lasciare cadere tutto nel solito nulla – prosegue l’ex ispettore – predispongo un controllo amministrativo nell’abitazione. L’uomo si è separato legalmente. Parlo con lui al telefono e mi indica dove è la prima pistola, una Beretta, ma nulla mi dice della seconda. Allora l’accertamento amministrativo diventa perquisizione e in cantina, in un armadio, ricordo, trovammo la pistola Drulov poggiata accanto o sopra una copia dell’edizione straordinaria cellofanata de La Repubblica del 16 marzo”. Il titolo era: “Aldo Moro rapito dalle Brigate Rosse”.
“Nel frattempo – va avanti il racconto di Rossi – erano arrivati i carabinieri non si sa bene chiamati da chi. Consegno le due pistole e gli oggetti sequestrati alla Digos di Cuneo. Chiedo subito di interrogare l’uomo che all’epoca vive in Toscana. Autorizzazione negata. Chiedo di periziare le due pistole. Negato. Ho qualche ‘incomprensione’ nel mio ufficio. La situazione si ‘congela’ e non si fa nessun altro passo, che io sappia”.
“Capisco che è meglio che me ne vada e nell’agosto del 2012 vado in pensione a 56 anni. Tempo dopo, una ‘voce amica’ di cui mi fido – dice l’ex poliziotto – m’informa che l’uomo su cui indagavo è morto dopo l’estate del 2012 e che le due armi sono state distrutte senza effettuare le perizie balistiche che avevo consigliato di fare. Ho aspettato mesi. I fatti sono più importanti delle persone e per questo decido di raccontare l’inchiesta ‘incompiuta'”.
Questa la dichiarazione dell’ex ispettore, che rimarca di parlare non per risentimento personale ma solo perché “quella è stata un’occasione persa. E bisogna parlare per rispetto dei morti”. Sorprendentemente, tuttavia, in un secondo tempo Rossi ha cambiato la sua posizione, negando che alla sua indagine fossero stati posti ostacoli di sorta.
Il signore su cui indagava Rossi è effettivamente morto – ha accertato l’Ansa – nel settembre del 2012 in Toscana. Le pistole sembrerebbero essere state effettivamente distrutte, ma il fascicolo che contiene tutta la storia dei due presunti passeggeri della Honda è stato trasferito da Torino a Roma e adesso si è deciso di archiviarlo.
Potrebbe sembrare un’altra di quelle misteriose piste di cui la vicenda Moro è fittamente intessuta. Ma all’improvviso mi sono ricordata qualcosa che ha fatto nascere in me un dubbio devastante: la lettera scritta dal misterioso agente segreto, al seguito del colonnello Guglielmi, è del 2009, ma il film “Piazza delle Cinque Lune “, scritto e diretto da Renzo Martinelli è del 2003 e c’è una sequenza del film in cui il giudice Saracini (impersonato da Donald Sutherland) ascolta nel buio la confessione di un pentito malato di cancro che gli racconta la stessa storia narrata nella lettera e quasi con le stesse parole. http://www.youtube.com/watch?v=sl4f-3ah1iE
Un’altra delle incredibili coincidenze presenti nel caso Moro? Ma chissà perché, per quale curiosa associazione di idee, mi sono subito venute in mente le finte teste di Modigliani trovate nell’Arno a Firenze: anche questa lettera è una burla di qualche giovane goliardo? No, forse è molto peggio.
Certo, tutto è possibile, anche lo sberleffo su una vicenda così drammatica, ma forse non è solo uno scherzo, volgare, pesante e fine a sé stesso. Magari la cosa è assai più sottile: se tu nascondi una verità scottante dentro una notizia infondata, la privi di qualsiasi credibilità, importanza, autorevolezza. Voglio dire che se vien fuori che la lettera è una bufala le notizie che vi sono riportate - seppur vere - perdono di ogni attendibilità, plausibilità e anch’esse diventano solo frottole, panzane, fandonie a cui nessuno può prestar fede.
Ma vediamo meglio di estrapolare da questa storia i fatti veri e accertati.
La prima cosa vera è che quella mattina di marzo, nelle vicinanze di via Fani, alle 9,15 del mattino e per sua stessa ammissione, c’era il colonnello del SISMI Camillo Guglielmi (fra i fondatori di Gladio), ma la spiegazione che fornì sulla propria presenza a quell’ora e in quel luogo è per lo meno risibile, se non addirittura comica: un invito a pranzo a casa di un amico (alle 9,15??? Nemmeno un brunch si fa a quell’ora e del resto nel 1978 non era certo di moda, qui in Italia!!). Comunque sia, la sua presenza è un dato accertato come vero. Che i SS fossero dentro a tutta la vicenda del sequetro, anche questo è un fatto arcinoto, così come è vero che in via Fani c’era una Honda e che quelli che c’erano sopra hanno sparato, come dimostrò la deposizione di Alessandro Marini, che al processo portò anche il parabrezza del suo motorino crivellato di fori di proiettile. Il teste accluse volenterosamente anche uno schizzo del luogo del rapimento di Aldo Moro, dove disegnò se stesso all’angolo fra via Stresa e via Mario Fani e la moto Honda con i due uomini che di lì a poco gli spareranno contro.
Non sappiamo chi fossero i due sopra la moto, ma non è difficile credere che fossero uomini dei servizi segreti e che il 16 marzo 1978 avessero il compito di proteggere l’azione delle Brigate Rosse e fare in modo che tutto filasse liscio. Non è difficile crederlo anche perchè i brigatisti hanno sempre negato che fossero dei loro compagni. Ed anzi Mario Moretti e Valerio Morucci sono stati categorici, sostenendo che quella moto blu di grossa cilindrata "Non è certamente roba nostra”.
Ed infatti – e quelli che hanno vissuto quei tempi lo sanno bene - un brigatista o comunque un ragazzo di sinistra non avrebbe mai montato una moto del genere, considerata con disprezzo roba per fighetti o per fascisti. Allora si era molto attenti a differenziarsi anche nel look, fra compagni e fasci. Ma anche questo è un buon indizio.
Quanto all’ex
brigatista Raffaele Fiore in una intervista
esclusiva al settimanale Oggi, del 18
giugno di quest’anno, ha sostenuto che quel giorno in via Fani con lui «C'erano persone che non conoscevo. Che non
dipendevano da noi. Che erano altri a gestire». E ancora, in un altro
passo: «Anche rispetto alla presenza sul
luogo dell'agguato di una moto Honda con due persone a bordo: nè io nè gli
altri compagni sappiamo nulla della moto, abbiamo avuto modo di parlarne e di
riflettere. Non so se c'era, nè chi erano i due a bordo. Non facevano parte del
commando dell'organizzazione».
Fiore, condannato all'ergastolo e dal 1997 in libertà condizionata, dice al
settimanale Oggi, soppesando le parole:«Non c'è stato un uso strumentale di altre
forze. C'era una situazione per cui facendo qualcosa rischiavi, pur non
volendo, di essere “utile” ad altri». Sulla possibilità che Moro venisse
salvato conclude con un messaggio tutto da decifrare: «Volevamo solo il rilascio dei nostri compagni, poi abbiamo capito che
non sarebbe stato facile portare avanti la battaglia. Che erano entrate troppe
forze in campo». Peccato che il giorno dopo Fiore abbia ritrattato
confermando che in via Fani erano solo in 9 e tutti appartenenti alle BR.
Che invece fossero compresenti molte forze diverse, lo dimostra anche la presenza in via Fani di alcuni travestiti da personale dell’Alitalia. Che senso aveva? Lo avrebbe avuto però nel caso che le persone in divisa non fossero conosciute dagli altri e quello fosse il segno di riconoscimento concordato, giusto per evitare di spararsi fra loro….
Ma torniamo al nostro elenco di fatti accertati e al nostro ragionamento.
Dunque: c’era Guglielmi e c’era la moto da cui si spararono - sicuramente - gli unici colpi verso un teste presente sulla scena del rapimento: il già ricordato ingegner Alessandro Marini, uno dei testimoni più citati dalla sentenza del primo processo Moro.
Da subito si è cercato di minimizzare, emarginare o negare queste presenze, perché riportano tutte a un coinvolgimento diretto dei SS e di chi allora li manovrava e li dirigeva. Ma nonostante tutti gli sforzi fatti, i dubbi sulle loro responsabilità riemergevano periodicamente e sempre più forti. A quel punto forse qualcuno ha pensato che fosse meglio smettere di negare e invece cercare di disinnescarli, o comunque di neutralizzarli, infilando le scomode verità in una ben confezionata bufala, facilmente riconoscibile come tale (almeno da chi ha visto il film citato).
Resta da capire perché questi fatti e queste persone sono così importanti ancora oggi e soprattutto dove portano e chi si vuol coprire.
In questo paese tuttavia quando si sente parlare di archiviazione di un caso si drizzano sempre le orecchie e se poi il riferimento è al caso Moro l’attenzione si raddoppia e ci si chiede subito cosa ci sia sotto e se si tratti dell’ennesimo insabbiamento. E nasce spontanea la curiosità di saperne di più su chi ha deciso l’archiviazione e il perché l’abbia fatto.
Il procuratore Ciampoli, tanto per capire di chi stiamo parlando, sostenne l’accusa nel processo per l’omicidio Calvi e per i fondi neri dei servizi segreti, ha lavorato a lungo alla procura presso il tribunale e da sostituto procuratore ha condotto indagini sul terrorismo di destra, in particolare su Avanguardia nazionale, e su quello di sinistra, soprattutto le Brigate Rosse. Si è occupato anche di mafia, ed è stato pm nel primo processo celebrato in Italia per fondi alla Comunità europea.
Dunque non sembra un “insabbiatore”, ma piuttosto uno che davanti a una inchiesta piena di dubbi e di angoli bui ha preferito chiuderla prima che diventasse una trappola e avvelenasse anche quel poco di verità che questa storia conserva.
Lo diciamo anche perché nel contempo Ciampoli ha aperto un procedimento contro Pieczenik, l’esperto americano chiamato da Cossiga durante il sequestro Moro e che ha sempre sostenuto - anche in un libro inchiesta del 2008 - il proprio coinvolgimento nella vicenda e l’ineluttabilità della soppressione dell’ostaggio. Secondo quello che scrive, avrebbe attuato una «manipolazione strategica che ha portato alla morte di Moro al fine di stabilizzare la situazione dell'Italia. Mi aspettavo che le Br si rendessero conto dell'errore che stavano commettendo e che liberassero Moro, mossa che avrebbe fatto fallire il mio piano», ha spiegato l'ex consulente Usa, «fino alla fine ho avuto paura che liberassero Moro». Ha detto con cinismo queste parole terribili, le ha ripetute nelle interviste, le ha perfino scritte, ma finora nessuno gli aveva contestato nulla: era ora che qualcuno non lasciasse perdere!
Quanto al colonnello Camillo Gugliemi secondo Ciampoli "potrebbe ipotizzarsi" il concorso nel rapimento e nell'omicidio degli uomini della scorta, anche se nei suoi confronti non si può promuovere l'azione penale perché è morto. Tanto per mettere i puntini sulle i.
Dunque si chiude una inchiesta piena di ombre, ma si riapre il caso Moro? Sapremo finalmente tutta la verità? Non è facile crederlo.
Per il momento l’unica verità che noi riusciamo a vedere in tutta la vicenda Moro e che nessuno potrà mai cancellare dalla nostra memoria, sono quelle povere vittime crivellate di colpi.
C’è un aforisma attribuito a Solone che dice che la giustizia è come una tela di ragno: trattiene gli insetti piccoli mentre i più grossi e forti la sfondano e restano liberi.
Barbara Fois