Il controllo di legalità esercitato dall’Autorità giudiziaria riguardo alla violazione di quelle regole di convivenza che sono presidiate dal diritto penale, è sempre stato oggetto di un dibattito incandescente. Il conflitto fra giurisdizione e poteri politici ed economici, sempre immanente negli ordinamenti democratici fondati sulla divisione dei poteri, in Italia ha assunto toni esasperati a causa dell’esigenza di una parte del corpo politico di sottrarsi al controllo di legalità a cui ha fatto da contraltare una politica populista volta a presentare il ricorso allo strumento penale come panacea di tutti i mali. Queste tensioni si sono scaricate sulla macchina della giustizia attraverso una selva di provvedimenti legislativi, frutto di esigenze contrastanti, che hanno finito per ingolfare maggiormente la giurisdizione penale, incrementando inefficienze e ritardi insostenibili nell’amministrazione della giustizia.
In questo contesto interviene la riforma Draghi – Cartabia che, a sua volta incide sulla riforma Bonafede in corso di discussione alla Camera. L’obiettivo della riforma, in linea con le indicazioni dell’UE, dovrebbe essere quello di incrementare l’efficienza del sistema attraverso interventi riformatori del processo penale che restituiscano alla giustizia penale un accettabile grado di efficienza, efficacia e celerità.
Per rendere più efficiente la macchina della giustizia penale non si possono fare miracoli, occorre agire su due versanti: deflazionare il carico di lavoro ed incrementare le risorse disponibili (magistrati, personale di cancelleria, aule e strumenti vari).
Il progetto introduce delle note positive che, proseguendo il percorso intrapreso dalla riforma Orlando, segnano un’inversione di tendenza rispetto al passato: istituti come l’incremento dell’area di procedibilità a querela, l’allargamento dei confini del patteggiamento, la modifica delle sanzioni sostitutive, l’incremento dell’applicabilità delle sanzioni sostitutive della carcerazione, l’ampliamento dell’istituto della non punibilità per la particolare tenuità del fatto, l’ampliamento della messa alla prova, la sperimentazione di forme (ancora indefinite) di giustizia riparativa, sono soluzioni che consentono un alleggerimento della macchina giudiziaria e nello stesso tempo puntano a rendere più equo il processo penale e a valorizzare la funzione rieducativa della pena.
C’è solo da notare che, nel disciplinare gli istituti deflattivi il progetto governativo è stato molto più timido delle proposte della Commissione Lattanzi ed ha escluso l’istituto dell’archiviazione meritata che avrebbe avuto un effetto di alleggerimento favorendo al contempo la riparazione del danno da reato.
Tutto questo sforzo di razionalizzazione si scontra e viene contraddetto dalle disposizioni in tema di ragionevole durata dei giudizi di impugnazione. Il disegno di legge introduce un istituto inusitato nella tradizione giuridica italiana: l’improcedibilità del processo per superamento dei termini di durata massima dei giudizi di impugnazione e fissa questi termini in due anni (prorogabili a tre) per l’appello e in un anno (prorogabile di sei mesi) per il giudizio di Cassazione.
L’Associazione nazionale magistrati ha osservato che tale istituto “non contiene una misura acceleratoria, capace di assicurare una durata ragionevole, ma un meccanismo eliminatorio di processi destinato ad operare senza poter essere illuminato da un criterio fondato sulla gravità e sulla natura dei reati oggetto di trattazione”.
Sia chiaro che l’interesse punitivo dello Stato non è un potere illimitato. Tolti i reati più gravi, punibili con l’ergastolo, questo interesse decresce e scompare del tutto con il passare del tempo, a fronte del diritto della persona a non essere chiamata a rispondere di fatti remoti nel tempo, né di doversi trovare nella condizione di imputato a vita.
Per questo opera l’istituto della prescrizione che “cancella” il reato, certificando il venir meno dell’interesse punitivo dello Stato con il passare del tempo, graduato a seconda della gravità del reato.
Intorno alla prescrizione si è articolato un duro confronto politico perché, a fronte del progressivo ingolfamento della macchina giudiziaria, si è creato uno spazio di impunità con riferimento alla corruzione e ai c.d. reati dei colletti bianchi.
A questo riguardo la soluzione indicata dalla riforma Bonafede, che blocca il decorso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, prestava il fianco al rischio di rendere alcune persone imputate a vita e non aveva alcun effetto acceleratorio sui processi in corso.
Tuttavia la soluzione adottata dalla riforma Draghi-Cartabia non risolve il problema e provoca effetti paradossali. Fatti criminosi anche gravi, come i reati che comportano l’uso delle armi o sono espressione di potere mafioso, diventeranno non punibili, anche se non sono maturati i termini (generalmente piuttosto lunghi) di prescrizione che fanno venir meno l’interesse dello Stato a procedere alla punizione dei responsabili. E non si tratterà di un effetto limitato se, come prevede il Procuratore antimafia potrebbero saltare 150.000 processi.
Del resto se le Corti d’appello nei luoghi di maggiore intensità criminale impiegano 5/6 anni per smaltire gli appelli, è un fatto statistico che migliaia di processi diventeranno improcedibili e verranno meno le condanne inflitte in primo grado per crimini anche gravi. Mentre le misure deflattive previste dalla riforma sono destinate al fallimento perché, di fronte alla prospettiva di improcedibilità del processo, sarà incentivato al massimo il ricorso in appello.
In questo modo viene fortemente ridimensionata l’azione di contrasto dei pubblici poteri alle condotte di sopraffazione e violenza che mortificano la libertà e i diritti dei cittadini e delle imprese.
E’ evidente che se prevarrà il partito dell’impunità, nascosto nelle pieghe della riforma, crescerà nella società il livello di sopraffazione e violenza che l’azione di contrasto effettuata da polizia e magistratura aveva, negli ultimi trent’anni, significativamente prosciugato.
Ma non è questo l’unico motivo di allarme.
Per quanto possa sembrare strano, la perenne aspirazione dei poteri politici a mettere le mani sul PM ha trovato eco anche nella riforma Cartabia con la norma che assegna al Parlamento di predeterminare con legge i criteri di priorità per l’esercizio dell’azione penale. Orbene la selezione delle priorità di intervento dei pubblici ministeri non può essere materia di competenza del Parlamento (e, conseguentemente, delle maggioranze esistenti) perché ciò aprirebbe la strada a seri pericoli per l’autonomia della magistratura e dei pubblici ministeri in particolare, e finirebbe con il condizionare il principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale.
In questo modo è stato inserito surrettiziamente un cuneo nel modello costituzionale che sancisce l’indipendenza del Pubblico Ministero e l’obbligatorietà dell’azione penale a garanzia dei diritti e dell’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge.
La necessità di riforme incisive per restituire efficienza alla giustizia penale non può essere strumentalizzata per restringere l’operatività del controllo di legalità esercitato dall’autorità giudiziaria, né tantomeno per mettere sotto tutela politica il Pubblico Ministero insidiando i principi che la Costituzione pone a caposaldo della divisione dei poteri.
Mancano pochi giorni alla conversione in legge del disegno di riforma della giustizia penale, mobilitiamoci per evitare soluzioni inadeguate e incostituzionali che possono provocare danni irreversibili. Un impegno particolarmente pressante dopo la decisione del governo di porre la questione di fiducia, che renderà impossibile una riflessione approfondita sui punti indiscutibilmente deboli della proposta di riforma.
La Presidenza del CDC