Introduzione
Tra le persone più informate e avvedute non c’è chi non si renda conto delle enormi trasformazioni socioeconomiche, politico-istituzionali, culturali, antropologiche che sarebbero necessarie per poter sperare di evitare le catastrofi ecologiche in atto e riuscire ad assicurare un futuro degno a tutti gli esseri viventi, nella loro totalità e interdipendenza. Per uscire dalla spirale autodistruttiva dell’Antropocene (o Homogenocene, o Eurocene, o Econocene, o Capitalocene, o Palantationocene, o Tecnocene, o Pandemiocene, o Plasticocene, o Wastecene… a seconda del “ceneismo” preferito, il mio è Tanatocene), per salvare le basi biologiche della vita sul pianeta Terra ed entrare in un nuova epoca geologica (Ecocene, Biocene, Chthulucene, Koinocene da me preferita: l’epoca delle relazioni di comunanza) sarebbe necessario un cambio di paradigma, un salto di civiltà, una rivoluzione antropologica. Però, allo stato attuale del “comune sentire” e del discorso pubblico, un cambiamento così radicale appare davvero improbo. La sproporzione tra le forze in campo è tale da scoraggiare anche solo il pensare a delle alternative. Infatti, chi ci prova viene immediatamente bollato dagli opinion markers più influenti (commentatori, accademici, leader politici) come persona velleitaria e irriconoscente, perché incapace di godere del privilegio che ha nel trovarsi a vivere in questa parte del mondo (il nord globale) e viene così trattato come un soggetto ossessionato che soffre di patologie querulomaniacali o, peggio, che trova piacere nel prospettare scenari di disperazione.
1. Teste nel pallone
L’immagine plastica, forse la più significativa, dell’immane forza egemonica, ordinatoria e disciplinante, che domina il mondo attuale ci è stata fornita recentemente dai campionati di calcio a Doha. Una città artificiale gigante, sorta dal nulla su un deserto, costruita da schiavi, con i grattacieli più alti del mondo, stadi con l’aria condizionata all’aperto e prati irrigati con acqua desalinizzata. Il tutto costruito e arredato da imprese occidentali, of course. Ma, contrariamente a ciò che si potrebbe credere, la ricchezza dell’emirato del Qatar (primo al mondo per Pil pro capite percepito dalle poche centinaia di migliaia di persone, 278 mila, che hanno la nazionalità quatariota, mentre la stragrande maggioranza della popolazione, due milioni e mezzo almeno, sono stranieri immigrati che non godono di alcun diritto) non viene dai ricavi del petrolio, che rappresentano oggi meno dell’1 per cento della sua economia (Immerwahr, 2022). Il Qatar è diventato un enorme polo direzionale transnazionale che funziona da volano acceleratore per circuitare il capitale globale. Il Qatargate esploso a Bruxelles non è (solo) l’ennesima conferma delle malversazioni dei professionisti della politica, ma l’indice delle nuove gerarchie ai vertici della mega-macchina finanzcapitalista nel XXI secolo. I campionati di calcio in Qatar non sono stati solamente l’arrogante ostentazione del potere del denaro, ma la simbolica dimostrazione del suo dominio sui vinti. Gli sceicchi hanno concesso ai poveri e ai derelitti della Terra di divertirsi per qualche giorno e, persino, hanno offerto un palcoscenico ai loro sogni di riscatto. Gli argentini, i marocchini, gli ultimi e i penultimi nel mondo reale hanno potuto compensare miseria e sfruttamento potendo onorare i loro idoli dai piedi d’oro. Effetto ipnotico, narcotizzante e istupidente. Nulla è cambiato nei meccanismi simbolici di dominazione del mondo dal tempo dei grandi imperi. Peggio, nessuno Spartaco ha rotto le catene, nessun “pugno nero” (come alle Olimpiadi di Città del Messico 1968) si è alzato nel cielo del Qatar, nessuna contestazione degna di nota. Anzi, massima copertura e audience televisiva alle stelle, applausi e mantello nero di tessuto pregiato (bisht) appoggiato sulle spalle del giocatore più bravo direttamente dalle mani dello sceicco monarca assoluto della dinastia al Thani. Coincidenza vuole che il giocatore argentino premiato, Lionel Messi, giocasse nel Paris Sant Germain di proprietà dello stesso emiro. Il cerchio si chiude.
Una vicenda che ci deve far riflettere su quanto alti siano gli ostacoli che deve superare chi sente ancora vivo dentro di sé l’imperativo etico di cambiare in profondità le relazioni sociali oggi dominanti. Come si fa a contrastare la forza onnipotente, reale e simbolica, del denaro? Intuiva già Marx:
«Il bisogno del denaro è il vero bisogno prodotto dall’economia politica, il solo bisogno che essa produce. La quantità del denaro diventa sempre più il suo unico attributo di potenza: come il denaro ha ridotto ogni essere alla propria astrazione, così esso si riduce nel suo proprio movimento a mera quantità. La sua vera misura è di essere smisurato e smoderato» (Marx, 1844).
2. Il denaro e le imprese possono tutto
Come sarebbe possibile liberare l’umanità dalla crescente dipendenza, reale e immaginaria, dal denaro? Fino ad ora le strategie pensate dalle forze politiche progressiste ed emancipatrici, ancorate ai valori di eguaglianza, fraternità e libertà, hanno fatto affidamento sull’allargamento delle basi democratiche rappresentative delle istituzioni politiche nazionali liberali aprendo così la “lunga marcia” delle classi subalterne, dei neri, delle donne, delle popolazioni emarginate e colonizzate per il riconoscimento dei diritti a partire da quello alla sicurezza economica. Sotto queste spinte, il sistema capitalista (cioè il modo di produzione e riproduzione sociale basato sull’economia di mercato, la proprietà privata, il profitto e l’accumulazione) ha dato una eccellente prova di sé. La crescita esponenziale della ricchezza monetaria e della produttività del lavoro, la redistribuzione dei redditi (trickle-down effect, “sgocciolamento” dai redditi dei più ricchi verso i poveri), l’allargamento dei consumi, l’allungamento delle aspettative di vita e quant’altro stanno a dimostrare che il capitalismo vince cavalcando sul dorso del destriero dell’economia di mercato, si espande in ogni latitudine, dà risposte ad ogni bisogno/desiderio e – cosa che più conta – convince gli umani di qualsiasi ceto, credo religioso, etnia. Il consenso al sistema capitalista è giunto a tal punto che lo strumento (la crescita economica) e lo scopo dell’agire umano (cooperazione sociale, convivenza pacifica, diritti, democrazia, armonia con il creato…) si sono invertiti. La crescita del valore monetario delle merci prodotte e vendute (il Pil) è diventato il bene assoluto, il valore totalizzante a cui ogni altro “fattore” del processo di produzione (beni naturali, lavoro umano, conoscenza, relazioni, salute…) deve essere funzionalizzato e può essere sacrificato. I sistemi politici post-democratici, a-democratici, demagogici e autoritari, forti della loro maggiore efficienza (vedi Cina, autocrazie arabe, populismi neonazionalisti) sono diventati modelli invidiati anche ad Occidente.
Ma, forse, la direzione più probabile che potranno prendere i sistemi politici nei paesi “più sviluppati” sarà quella della presa diretta del potere delle grandi conglomerazioni produttive-finanziarie sulla società. Già ora è evidente che sono i finanziamenti delle imprese a fare la differenza nella selezione dei rappresentanti eletti nei parlamenti; che sono le lobby a scrivere le leggi (non solo quelle fiscali, ma quelle che regolano ogni tipo di transazione); che sono le generose donazioni delle fondazioni bancarie e dei filantropi super ricchi a determinare le politiche della ricerca scientifica, degli aiuti alla cooperazione internazionale, del welfare, della sanità. Sulla scorta delle teorie pratico-morali del filosofo australiano Peter Singer (che afferma – più o meno – che “il bene si identifica con l’utile”), i ricchi possono mettere a posto coscienza e business donando una “quota etica minima” dei profitti ad associazioni di beneficenza purché abbiano certificate i benefici effettivi riscontrabili a lungo termine (longterminism); “altruiso efficace”, lo chiamano. (Dentico, 2020; Madaro, 2021; Kinstler, 2022). Il salto di qualità non sta nella discesa nel campo della politica di qualche miliardario, ma nella pretesa del sistema delle grandi imprese transnazionali di sussumere in sé – facendo a meno di ogni mediazione politica, e dal relativo obbligo fiscale – ogni sorta di obiettivo sociale; dalla sostenibilità ambientale alla fame nel mondo, dall’innovazione scientifica e culturale alla lotta alle malattie, dall’istruzione alla regolazione dei diritti di proprietà della stratosfera… Le élite più avvedute del capitalismo globale nei loro think tank (come il Forum economico mondiale di Davos, orchestrato da Klaus Schwab) hanno capito da tempo che per aumentare la loro presa sul mondo non basta dare una “mano di verde” alle ciminiere tossiche ed attuare un corrispondente social washing delle politiche di coesione sociale, per “non lasciare indietro nessuno”. Serve qualcosa di meno superficiale e di più strutturale che chiamano “reset capitalism”, anzi un “great reset capitalism”. Un azzeramento per poter rilanciare su grande scala un ciclo di accumulazione, investimenti, profitti (la 4 a rivoluzione industriale che combina ingegneria biomolecolare e robotica, visori di Metaverso ed editing genetico, space economy e coltivazione di miniere nei fondali profondi degli oceani…).
Per riuscirci il sistema delle imprese deve assumersi e risolvere in prima persona il problema della sostenibilità ambientale e sociale (attraverso l’adozione di parametri di investimenti Esg, Evironment Social Governance, o altre simili “tassonomie” capaci di misurare gli impatti positivi degli investimenti sull’ambiente naturale e sulla società). Secondo costoro, seguendo queste indicazioni, la reputazione del capitalismo tornerà a crescere e, per giunta, si taglieranno le costose e inefficienti messinscene allestite nel teatrino della politica politicante. Il capitalismo si fa forza totale e integrale, ecosistemica e biologica; sussume nei meccanismi di valorizzazione delle merci i processi vitali (attraverso la manipolazione dei genomi fino alla geoingegnerizzazione del clima) e, nello stesso tempo, aziendalizza all’interno del gioco del mercato i bisogni delle persone. Lo strumento è la tecnoscienza. Il filosofo Christopher Preston ci ricorda che: «Oramai non solo la nostra specie si circonda di nuovi materiali, ma sta anche acquisendo la capacità di riprogettare un certo numero di processi planetari fondamentali. Stiamo imparando a sintetizzare e a cucire assieme nuove disposizioni di Dna per creare organismi originali e utili. Stiamo fabbricando nuove strutture atomiche e molecolari per creare materiali con proprietà completamente nuove. Stiamo modificando la composizione delle specie presenti negli ecosistemi» (Preston, 2020). Ma si può andare oltre. Attraverso la differenziazione e la riprogrammazione dei geni delle cellule
staminali si possono produrre “organoidi” ed “embroidi”, cioè, organi sintetici senza l’impiego di oociti e spermatozoi. E, ancora, veniamo a sapere che i ricercatori dell’università di Stanford hanno trapiantato neuroni umani nei ratti e stanno funzionando, nel senso che stanno contribuendo a determinare il comportamento degli animali, almeno potenzialmente (Micu, 2022).
L’unica misura della mediazione tra gli interessi in gioco è il denaro. Nell’economia di mercato ogni altro “valore” non computabile in moneta non può essere preso in considerazione. I diritti hanno un loro mercato, così come gli stock di natura (capitale naturale) e i servizi ecosistemici. Le migrazioni sono consentite solo in presenza di un contratto di lavoro; l’emissione di sostanze inquinanti nei meccanismi di scambio delle autorizzazioni genera crediti fruttiferi; pensioni, sanità, istruzione sono accessibili solo a chi è dotato di polizza assicurativa. La via del Mercato al benessere e alla sostenibilità è virale. I Ceo, gli amministratori delegati, i gestori dei fondi finanziari e del risparmio delle famiglie, ogni altro stake-holder dovrà far propria la nuova filosofia della crescita green e social. Potranno farsi aiutare da “comitati etici” da affiancare ai consigli di amministrazione (come suggerisce l’Economia civile e la Economy of Francesco) o da consulenti reclutati attraverso le “porte girevoli” tra i professionisti della politica, delle banche, delle università, ma le imprese non potranno più delegare le decisioni ed “esternalizzare” le responsabilità a carico di istituzioni politiche diverse da quelle create dalle imprese stesse. Una rivoluzione anche giuridica che è già in essere con la creazione dei tribunali extragiudiziali previsti dai vari accordi internazionali di libero scambio.
Nell’ottica del sistema capitalista non ha molta importanza quanta umanità potrà essere inglobata nei meccanismi di mercato. Non è indispensabile “dare da lavorare” a tutti gli 8 miliardi di persone che abitano il pianeta. Anzi, un largo “esercito di riserva”, imprigionato nella miseria e ammassato nelle megalopoli del sud globale è del tutto funzionale al buon funzionamento dell’economia che produce profitti. Gli esclusi, le eccedenze, gli scartati, i «carichi residuali» (per usare l’espressione del ministro Piantedosi a proposito dei migranti sulle navi dello Ong) sono del tutto ininfluenti nel processo di valorizzazione dei capitali. Questa è la ragione per cui vengono anche disprezzati. Le rivolte metropolitane (Harvey, 2012) e le insurrezioni urbane non si sono trasformate – almeno fin’ora – in rivoluzioni (Davis, 2006).
3. Strategie di salvezza
Certo, non mancano le crepe e numerosi sono i segni di cedimento in vari snodi dell’impalcato costruito per reggere la globalizzazione dei mercati. La competizione sfrenata tra le diverse aree geopolitiche, le spese crescenti necessarie per militarizzare i confini delle rispettive aree di influenza e soprattutto le imprevedibili conseguenze dei dissesti ambientali sono alcune delle «diciassette contraddizioni» (enumerate sempre da Harvey) che tormentano il capitalismo. Ma non è scritto da nessuna parte che portino alla sua (rapida) fine. La collassologia è diventata una scienza che però non ci dice niente né sul quando, né su cosa succederà dopo. I “crollisti” rischiano di invecchiare seduti sulla riva del grande fiume aspettando invano che la corrente trasporti il cadavere del capitalismo. Scriveva Louis Dumont, nel lontano 1977: “vero che la tendenza a vedere crisi dappertutto è forte nell’ideologia moderna, e che se una crisi esiste non data certo da ieri; in un senso più ampio, questa crisi (una crisi del paradigma ideologico moderno) è anzi più o meno consustanziale al sistema, tanto che alcuni di noi potrebbero trovarvi un motivo di orgoglio» (Dumont, 1984). Temo anch’io che nemmeno questa volta il capitalismo ci farà il piacere di andarsene da solo. E poi, chi ci può dire cosa succederebbe dopo? Potrebbe verificarsi quello che McKenzie Wark ipotizza: «Il capitale è morto. Il peggio deve ancora venire» (M. Kenzie, 2021), o, come dice Bifo: «Possiamo sperare che il capitalismo non sopravvivrà, ma saremo capaci di vivere fuori dal suo cadavere?» (Franco Berardi, www.comune-info.net febbraio 2021).
La questione centrale, quindi, non è la intensità, la larghezza o la scala della crisi che investe il mondo capitalizzato, mercificato, finanziarizzato, ma la mancanza di alternative desiderabili e praticabili, realistiche ed efficaci. Siamo rimasti a corto di strategie post-capitaliste.
Il sociologo Marco Deriu in un enciclopedico saggio sulla incapacità dei sistemi democratici nel dare risposte alla crisi ecologica (Deriu, 2022) prende in esame i movimenti che si sono posti l’obiettivo di una trasformazione profonda, strutturale, istituzionale e antropologica delle relazioni sociali oggi dominate dal sistema di mercato e ne vede i limiti nell’approccio ondeggiante tra un localismo anarchico-comunitario e un neo-statalismo pianificatorio; tra un orizzontalismo microcosmico e un verticalismo che finisce per essere inglobato nelle pratiche istituzionali tradizionali. Siamo ancora dentro la contrapposizione tra “spontanei-sti” e “partitisti”, alla ricerca di un punto di incontro tra movimenti che dovrebbero politicizzarsi e partiti che dovrebbero risocializzarsi. Quale rapporto dovrebbe instaurarsi tra l’azione trasformativa diretta dei movimenti sociali ed ecologisti e l’iniziativa politica nelle istituzioni democratiche rappresentative? «Manca completamente – afferma Deriu – una più ampia ed istituente visione politica della decrescita che integri e incorpori una riflessione di senso, di valori, con una riflessione sui modelli relazionali e sociali, fino ad una riflessione sulla necessità di complessi sistemi regolativi che significa discutere di spazi, di prassi, di modelli
organizzativi, di logiche di azione, di invenzioni istituzionali» (p. 295). La connessione storica tra economia di mercato e democrazia liberale è certamente saltata, sia sul versante sociale (non funziona più come modello di inclusività), sia su quello ambientale (è evidente lo sfondamento dei limiti planetari dei cicli vitali naturali). Ma la strada per una nuova economia e una “democrazia ecologica” rimane problematica. Non perché manchino le proposte scientificamente e razionalmente valide, ma perché non emergono soggetti sociali capaci di intraprendere un’azione politica incisiva, in grado di sperimentare comunità ecologiche, costruire infrastrutture sociali e istituzionali di supporto, di praticare forme di vita rispettose dei valori della condivisione solidale e della salvaguardia del creato.
Una boccata di ottimismo la porta il filosofo sociale statunitense Charles Eisenstein (Eisenstein, 2022). Secondo il conferenziere della Yale University è possibile fare leva su quella parte interiore della natura umana che non è egoista, ma relazionale, socievole, in connessione affettiva con la natura, votata alla bellezza. Da qui è possibile ipotizzare un’economia del dono, locale, comunitaria. Che fare? In attesa dell’emersione di un movimento sociale che sappia coniugare gli interessi degli ultimi e degli esclusi, ma anche delle generazioni future e delle specie non umane, con i valori della condivisione e della solidarietà, cioè con gli ideali della democrazia, agli individui e ai gruppi sociali che sentono il bisogno di “fare società” non rimane che agire nel modo più coraggioso e radicale possibile nelle condizioni date. Parafrasando la Guerra di guerriglia di Che Guevara, dovremmo cercare di praticare nel nostro piccolo azioni di resistenza e diserzione e sperare che funzionino da esempio, capaci di indicare una via da replicare e seguire, poiché «un ramoscello può incendiare l’intera pianura».
Insomma, non c’è alternativa all’iniziativa dal basso, che parta dall’«emozione dei singoli» (Castells, 2012) e giunga a formare «ambiti di comunità autonome» (Esteva, 2012). Raúl Zibechi ha scritto:
«Le grandi trasformazioni cominciano come minuscoli asteroidi irrilevanti per il politico e l’analista che stanno arriba. […] Sono sempre i piccoli gruppi a prendere l’iniziativa, senza tener conto dei ‘rapporti di forza’, ma guardando solo alla giustizia delle proprie azioni. In seguito, a volte anche molto più tardi, lo Stato finisce con il riconoscere che i critici avevano ragione. […] Il punto cruciale, a mio modo di vedere, è il cambiamento culturale, la diffusione dei nuovi modi di vedere il mondo» (Zibechi, 2014).
Certo sarebbe necessario che i movimenti sociali ed ecologisti di base maturassero una propria teoria dello Stato e una propria idea di democrazia sostanziale, intergenerazionale e includente il diritto alla vita di ogni essere vivente. Pino Ferraris è lo studioso socialista che ha più indagato le esperienze dei movimenti operai tra Otto e Novecento e giunse a proporre «un progetto di una confederazione politica dell’iniziativa sociale», “una rete solidale delle autonomie confederate”. “Direi che la confederalità esprime una logica di raggruppamento che converge con le emergenti culture e tecniche di rete: la rete piatta orizzontale che spezza la piramide gerarchica e verticale dell’organizzazione novecentesca. La confederalità è un patto tra diversi retto da reciprocità ed equivlenza” (Ferraris, 2008). Con questo spirito propongo di guardare alcuni esempi della miriade di esperienze di resistenza e ai tentativi di creare comunità locali capaci di sottrarsi al furore distruttivo dell’ipercapitalismo (Cacciari, 2016).
4. Testimonianze
4.1 No Dal Molin
Olol Jakson era uno dei protagonisti più conosciuti e combattivi della mobilitazione che ha visto la popolazione di Vicenza contrapporsi per anni al tentativo di costruire una nuova base militare. Olol è morto improvvisamente giovane, a 47 anni, il 17 ottobre del 2017. Amici e compagni gli hanno voluto dedicare il lascito forse piø significativo dei quella esperienza: il centro polifunzionale Caracol Olol Jackson sorto in centro a Vicenza (Viale Francesco Crispi, 46, www.caracolol.it) i cui pilastri sono: diritti, salute, cultura. «Il nostro sogno – è scritto nel progetto – va verso un modello di sviluppo sociale ed economico costruito su basi mutualistiche. […]. Un luogo che diventerà un laboratorio sociale e di integrazione libero da pregiudizi economici, etnici e di genere». Così, possiamo dire che il vecchio presidio No Dal Molin tirato su con tendoni e lamiere all’inizio della contestazione (durata dal 2006 al 2011) ai bordi dell’aeroporto civile Dal Molin, che i governi (prima Berlusconi e poi Prodi) volevano consegnare alle Forze Armate degli Stati Uniti, si è miracolosamente evoluto in un bellissimo edificio (una ex officina) di più piani che offre servizi fondamentali e di qualità alla cittadinanza che più ne ha bisogno. La “casa comune” Caracol ha cominciato ad essere operativa nel 2020, in piena emergenza Covid, con l’apertura di sportelli informativi sui diritti, ambulatori gratuiti di medicina generale, pediatria, ginecologia, oculistica, dentistici, oltre ad un auditorium, una biblioteca, aule di una scuola popolare e una osteria. Segno evidente che la esperienza aggregativa del movimento No Dal Molin ha permesso di costruire una forte rete di relazioni comunitarie tra associazioni, sindacati di base, gruppi di volontariato, tra cui Emergency, Welcome Refugees, Isde Medici per l’ambiente. I protagonisti di quella importante esperienza pacifista ed ambientalista (che ha visto l’occupazione dell’aeroporto, due manifestazioni nazionali con 150 mila partecipanti, un referendum autogestito con 25 mila votanti, il rovesciamento degli equilibri politici in consiglio comunale ed un’altra infinità di azioni) sono passati dalla protesta alla costruzione di una infrastruttura sociale libera e autonoma, un presidio permanete aperto e autogestito. Sono infatti riusciti a raccogliere i fondi necessari per acquisirne la proprietà dell’edificio ed ottenere i finanziamenti per le costose attrezzature. Insomma è proprio vero che “la lotta paga” anche quando sembra non ottenere tutti i risultati sul campo. Il compromesso raggiunto nel 2010 tra gli americani e il governo italiano ha sancito la cessione alla US Army solo di metà dell’area dell’ex aeroporto, mentre nella rimanente è in corso di realizzazione (seppure con troppa lentezza!) un grande area verde progettata con metodi partecipativi chiamata Parco della pace.
Sulla vicenda No Dal Molin vi è una ricca letteratura, ricordo qui un racconto romanzato di Marco Palma, La guerra non parte da qui (Palma, 2021).
4.2 Usi civici collettivi a Napoli
Ha cominciato L’Asilo dieci anni fa (ex asilo Filangieri, enorme edificio monumentale in pieno centro storico) ad essere liberato dall’abbandono e dai progetti di “gentrificazione urbana”, poi ne sono seguiti altri: l’ex Ospedale psichiatrico a Materdei, ribattezzato Je so pazzo, l’ex carcere minorile in Salita Pontecorvo, ribattezzato Scugnizzo liberato, Villa Medusa a Bagnoli, il Giardino di Materdei, il Lido Paola a Bagnoli, Santa Fede, l’ex Schipa. In tutto otto proprietà pubbliche abbandonate o male utilizzate che sulla spinta di occupazioni accompagnate da progetti di riuso popolare sono state oggetto di una lunga trafila di delibere comunali (sindaco Luigi De Magistris) che hanno consentito la loro sostanziale autogestione da parte delle comunità che ne fruiscono, vale a dire le assemblee delle persone che organizzano e partecipano alle attività. Una forma di “sussidiarietà orizzontale” molto avanzata, che va oltre i Patti dell’amministrazione condivisa proposti in molti comuni sul modello da presa a riferimento dalla Rete Nazionale Beni Comuni Emergenti e ad Uso Civico (www.retebenicomuni.it).
Il riuso di queste strutture ha rivitalizzato alcuni quartieri di Napoli, ma è interessante notare che alcune hanno trovato una loro vocazione metropolitana. L’Asilo è diventato una comunità aperta e ampia di operatori dello spettacolo e della cultura (teatro, danza, laboratori di scenografia, corsi, esposizioni, ecc.). Lo Scugnizzo liberato ospita laboratori e scuole artigianali tradizionali e botteghe artistiche. Je so pazzo ha aperto sportelli e informativi sui diritti e ambulatori che si rivolgono a tutta la città. Il caso napoletano, per le sue implicazioni giuridiche e sociali, è stato oggetto di molti studi tra cui quelli del giurista Giuseppe Micciarelli e del filosofo Nicola Capone (Micciarelli, 2017; Capone 2019).
4.3 Mondeggi, fattoria senza padroni
Dopo dieci anni di dura resistenza alla vendita, di “custodia” e riuso sociale del grande podere di Mondeggi a Bagno di Ripoli, 170 ettari alle porte delle colline del Chianti, la comunità allargata che si è formata tra contadini, abitanti della zona e cittadine/i che hanno preso a cuore e in cura l’uliveto, i terreni e i casali abbandonati si è vista recapitare un regalo che potrebbe rivelarsi avvelenato: la Città metropolitana di Firenze, proprietaria del bene, ha finalmente deciso di recedere dalla alienazione (dopo varie aste andate deserte) ed anzi ci ha messo sopra 52,5 miliardi del Pnrr. Next Generation. Le finalità sono buone, sembrano anzi copiate dal manifesto del comitato Mondeggi fattoria senza padroni, poiché l’intenzione è di realizzare: “un progetto incentrato sullo sviluppo umano integrale e sostenibile dei cittadini e delle comunità locali”. Esattamente quello che stanno facendo dal 2014 i “presidianti” attraverso attività agroecologiche di vario tipo e di alta qualità: manutenzione e messa in produzione dell’uliveto (4 mila piante), ripiantumazione delle viti, ripristino dei terreni seminativi (con produzione di grani antichi e zafferano) e a pascolo, piantumazione di un nuovo frutteto, apicultura, formazione di orti, oltre ad una intensa attività di formazione (in rete con Genuino Clandestino, Rete semi rurali e altre associazioni) e culturali. La particolarità è che a Mondeggi tutte le attività sono decise dai partecipanti attraverso assemblee aperte autogestite sulla base dei principi del mutualismo, della cooperazione e della assunzione diretta di responsabilità di chi si impegna nelle varie attività. La scommessa ora è evitare che l’apertura dei cantieri e, poi, la assegnazione dei manufatti restaurati e delle nuove infrastrutture possano avere impatti negativi sulla vita della comunità e snaturare i criteri gestionali inventati a Mondeggi ispirati all’idea dei beni comuni condivisi. Un tavolo di confronto si è aperto tra il comitato, l’associazione Amici di Mondeggi e la amministrazione comunale. Sarà davvero interessante seguirne gli sviluppi per capire se l’innovazione sociale spontaneamente emersa a Mondeggi riuscirà a determinare non solo il progetto esecutivo degli interventi edilizi, ma anche le pratiche amministrative e le scelte gestionali dell’ente pubblico. Si può seguire la vicenda di Mondeggi nel sito: https://mondeggibenecomune.noblogs.org/.
4.4 Val Susa
La vicenda della Val Susa è troppo nota e lunga (il primo progetto di Tav è del 1992) per essere qui ricordata. Una infrastruttura “trans-europea” che condanna una valle a diventare un “corridoio multimodale”. Da qui proteste infinite, da una parte, leggi speciali e militarizzazione del territorio per riuscire ad aprire i cantieri, dall’altra. Un luogo dove è evidente la contrapposizione insanabile tra democrazia (che non sia quella della Tirannide della maggioranza) e sviluppo economico (quello della crescita a tutti i costi). Ciò a cui in questa sede si vuole richiamare l’attenzione è come la lunga vertenza abbia rafforzato non solo la conoscenza e la sensibilità degli abitanti nei riguardi delle valenze ambientali del loro territorio, ma anche le relazioni comunitarie, sia sul piano sociale, che politico. Anni di riunioni, convegni, dibattiti, assemblee, presidi e marce nei luoghi investiti dal progetto hanno creato coesione e migliorato le modalità di governo delle amministrazioni locali. Sono nate reti di imprenditori locali (come quella del Vino a bassa velocità e di Etinomia), mercatini con il marchio Prodotti della Valle Susa, strutture ricettive e gastronomiche. Insomma, l’impegno civico e la lotta rigenera le coscienze! Tra i molti libri pubblicati, segnalo quello del magistrato Livio Pepino e del sociologo Marco Revelli (Pepino & Revelli, 2012).
4.5 Pan e farine dal Friûl di Mieç
Il Friuli Venezia Giulia è una delle poche regioni che si sono dotate di una legge per la promozione dell’economia solidale (LR n.4/2017) sulla spinta esercitata dal Forum dei beni comuni e da esperienze locali virtuose. L’idea è di dare vita a delle comunità locali (coincidenti con i 19 ambiti territoriali per la gestione dei servizi sociosanitari) di cittadine/i in grado di creare distretti e filiere produttive per rispondere alle principali necessità alimentari, energetiche, abitative, del vestiario e dei servizi alle persone. I principi guida sono il mutualismo, la cooperazione, la sostenibilità, la democrazia e la giustizia. Un progetto ambizioso che ha mobilitato molte energie attraverso corsi di formazione, assemblee e festival promossi da una associazione appositamente costituita, la ProDES FVG. Una prima comunità si sta costruendo intorno alla filiera del Pan e farine dal Frißl di Mieç che consorzia dodici aziende agricole di quattro comuni, tra cui la proprietà collettiva San Marco di Mereto di Tomba, un mulino, diversi panificatori e uno storico panificio in centro a Udine che funziona da punto vendita. Il tutto gestito da una cooperativa agricola e di lavoro, aperta a soci sostenitori del progetto, che funziona di fatto come una cooperativa di comunità. Altre due filiere solidali attive in regione sono quelle del Pan e Farine di Muçane, nella Bassa Friulana, e il Patto della farina del Friuli Orientale, tra Trieste e Gorizia. Una bella pubblicazione curata da Lucia Piani, Nadia Carestiato e Donatella Perissin racconta dettagliatamente l’esperienza (Piani, Carestiato, Perissin, 2019).
Nella foto passeggiata ai Mostri della Devastazione, il Fortino di Chiomonte e quello di San Didero.
Tantissimi i/le No Tav partiti dal Presidio di Venaus. Foto di Festival Alta Felicità
Riferimenti bibliografici
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– Dentico, N. (2020). Ricchi e buoni? Le trame oscure del filantrocapitalismo. Bologna: Emi.
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Quadro di prospettiva.
– Piani, L., Carestiato, N., & Peressin, D. (2019). Dalla farina alla comunità: una filiera di economia solidale nel Medio Friuli. Udine: Forum.
– Pepino, L. & Revelli, M. (2012). Non solo un treno… La democrazia alla prova della Val Susa. Torino: GruppoAbele.
– Preston, Ch. (2020). L’era sintetica. Torino: Einaudi.
– Zibechi, R. (2014). Sulle piccole azioni e sulle grandi vittorie, www.comune-info.net, 13 gennaio 2014