Era il 23 marzo 2020 quando l’Unione Europea, investita dalla pandemia, prese la decisione di sospendere il patto di stabilità per il biennio 2020-2021, prorogandola a più riprese fino a tutto il 2023.
C’era voluto un microscopico organismo, che non è neppure un essere vivente -Covid19- per sciogliere come neve al sole l’inossidabile impalcatura di Maastricht a cui per quasi trenta anni tutto era stato sacrificato: diritti del lavoro, beni comuni, servizi pubblici e democrazia.
Ciò è stato possibile perché la pandemia aveva reso evidente la drammatica situazione sanitaria e sociale e aveva costretto Stati e Ue, in dichiarato affanno, a rivedere i principi liberisti per mettere in campo risorse straordinarie e far fronte ai drammatici effetti dell’emergenza venutasi a determinare.
“Niente sarà più come prima” dicevano allora, e tutti ci saremmo immaginati che, pur non essendoci alcun Aristotele al governo, stesse affermandosi il sillogismo per cui “se per salvare le persone sospendo tutti i vincoli finanziari e monetaristi, se ne deduce che quei vincoli sono contro la vita e la cura delle persone”.
Ma poiché nessuna logica può scalfire il dogma, eccoci di nuovo a fare i conti (nel senso letterale) con il prossimo ripristino del patto di stabilità. Nella nuova formulazione ciascun paese sarà chiamato a preparare un piano di risanamento del debito basato sulla spesa pubblica netta. Per i paesi con un debito elevato, i piani nazionali, della durata di quattro anni estensibile a sette, dovranno garantire un calo dello stesso debito pubblico per almeno dieci anni. Dovrà essere attuato un aggiustamento di bilancio minimo dello 0,5% del Pil all’anno fino a quando il deficit rimarrà superiore al 3,0% del Pil; per l’Italia questo significa 15 mld/anno nell’ipotesi dei quattro anni o 8 mld/anno nell’ipotesi settennale.
Ora è chiaro come quel “niente sarà più come prima”, lungi dall’essere un annuncio del cambiamento possibile, fosse in realtà una minaccia, come dimostrato dal transito senza soluzione di continuità da una pandemia ad una guerra. D’altronde, mentre si preparano nuovi tagli draconiani alla spesa pubblica, gli investimenti nelle armi hanno raggiunto i livelli dei tempi della Guerra Fredda, rendendo chiaro come la nuova austerità servirà a finanziare la guerra.
Così, mentre la fascia di povertà si espande a vista d’occhio e gli effetti della crisi eco-climatica sono ormai drammatica quotidianità, riparte la narrazione artificiale del debito pubblico come problema assoluto e ci viene richiesta una nuova rassegnazione (ripresa e resilienza, of course).
Anche la nuova austerità avrà il suo target nei Comuni e nelle comunità territoriali, i quali, pur contribuendo in misura irrisoria al debito pubblico (1,5% in ulteriore diminuzione), hanno il difetto di essere titolari della ricchezza collettiva di questo paese, fatta di territorio, beni comuni, servizi pubblici e patrimonio pubblico, preda da tempo dei grandi interessi finanziari.
Di fronte a questo quadro, diviene ancor più importante partecipare alla campagna Riprendiamoci il Comune (www.riprendiamociilcomune.it) che dal basso prova a invertire la rotta, ridisegnando il profilo dei Comuni dentro una nuova funzione pubblica, sociale, ecologica e relazionale e rimettendo nelle mani delle comunità territoriali i beni comuni e le ingentissime risorse (280 miliardi) del risparmio postale di Cassa Depositi e Prestiti.
Una rivoluzione dal basso oggi per permettere domani di far ricordare Maastricht come vivace città universitaria dall’architettura medievale invece che come il simbolo perenne dell’incubo liberista.
Foto: Raccolta firme a Roma per la campagna Riprendiamoci il Comune