Fioccano pessime notizie. Per quanto riguarda l’andamento della pandemia, gli ultimi dati, che speriamo possano essere presto smentiti da un miglioramento della situazione, registrano in questi giorni una inversione del trend delle ultime settimane. La cabina di regia posta presso il ministero della Salute e l’Istituto superiore di sanità configurano una situazione in cui, pur restando contenuti i numeri, i dati dell’epidemia hanno smesso di scendere. Nuovi focolai si accendono da Nord a Sud del paese. Lo stesso ministro della sanità, solitamente poco loquace, ha avvertito che “la battaglia non è ancora vinta e che serve gradualità e prudenza nelle prossime settimane”.
Per quanto riguarda la previsioni sull’andamento economico, che a loro volta derivano e si intrecciano in buona parte da e con quelle sul trend epidemico, il quadro si è fatto ancora più fosco con l’aggiornamento effettuato dal Fondo monetario internazionale sulle stime di crescita per il 2020. Si prevede una contrazione del Pil mondiale del 4,9% contro il 3% stimato solo ad aprile. In pratica è solo la Cina che può evitare il segno meno, ma anch’essa probabilmente chiuderà l’anno con un risultato inferiore alle previsioni, ovvero uno striminzito 1%, come cinquant’anni fa. La capoeconomista del Fmi, Gita Gopinath può quindi rincarare la dose del suo pessimismo definendo quella che verrà come “la peggiore recessione dalla Grande Depressione” degli anni ’30. Secondo il Fmi il peggio dovrà manifestarsi nel secondo trimestre dell’anno in corso.
Per 2021 il Fmi prevede una crescita del Pil globale del 5,4% invece del 5,8% precedentemente stimato, con una contrazione del commercio mondiale vicina al 12%. Per l’Eurozona mette in conto una contrazione del 10,2% e per l’Italia una flessione del 12,8%, avvicinandosi quindi alle stime forniteci da Ignazio Visco nelle sue Considerazioni finali all’assemblea di Bankitalia (-13%) che ad alcuni erano parse eccessive. Se il nostro paese piange gli altri di certo non ridono. La potente Germania si prepara a un -7,8%, gli Usa scontano un calo dell’8% e perfino l’India che ci aveva abituato a continui tassi di crescita, subirà la prima contrazione in oltre 40 anni, pari al 4,5%.
E’ francamente inutile esercitarsi sulle stime della ripresa, che pure il Fmi fornisce, anch’esse ridotte rispetto a precedenti rilevazioni, poiché fino a quando la pandemia non sarà effettivamente superata, sarebbero destinate a continue revisioni. Intanto l’impatto sull’occupazione viene giudicato “catastrofico” dallo stesso Fmi che riprende i dati dell’Organizzazione mondiale del lavoro. A farne le spese maggiori saranno i lavoratori scarsamente qualificate e le donne. Piove sul bagnato.
Le conseguenze più gravi cadranno nei mercati emergenti e nelle economie in via di sviluppo. Ovvero la pandemia accrescerà nuovamente le diseguaglianze tra paesi e zone del mondo. Il Fmi concentra la sua attenzione non solo sull’economia in senso stretto ma sulla società in generale e in particolare sull’istruzione. La chiusura delle scuole in circa 150 Paesi comporterà una “perdita di apprendimento” per 1,2 miliardi di giovani, circa il 70% del totale, il che provocherà un arretramento di conoscenze e competenze per un’intera generazione su scala mondiale, minando quindi le possibilità di ricrescita sotto il profilo sociale e culturale, almeno in tempi rapidi. Gli ottimisti della ripresa a “V” si devono purtroppo ravvedere e pensare a come fronteggiare un lungo periodo di stagnazione, nel migliore di casi.
Sono interessanti i consigli che Gobinath fornisce ai governi, se non altro per giudicare la distanza che li separa dai propositi che vengono avanzati, nel nostro caso, da Confindustria e affini. La capoeconomista del Fmi dopo il rituale avvertimento a evitare sprechi nella spesa pubblica, insiste sulla necessità di una lotta efficace all’evasione e di riforme fiscali che puntino ad allargare la base imponibile e attuare una “maggiore progressività” del prelievo. L’esatto contrario delle varie flat tax, ma anche della riduzione del numero degli scaglioni Irpef su cui parrebbe orientarsi la “misteriosa” riforma fiscale annunciata a più riprese dal nostro governo.
Ma il richiamo della Gobinath andrebbe inteso in senso ancora più estensivo. Richiamando la sovranità fiscale si punta dritto sul ruolo dello stato. Solo che questo non può essere visto, soprattutto in una situazione talmente grave da essere avvicinabile alle crisi postbelliche, solo sul versante ridistributivo. Il tema che la recessione ci squaderna davanti è un nuovo ruolo dello Stato nel campo della produzione. Come affrontare altrimenti “uno degli autunni più terribili della storia”? La filosofia della Confindustria nel nuovo presidente purtroppo la conosciamo: tutti gli aiuti vanno alle imprese perché sono esse a creare lavoro e non lo Stato. La cosa è stata smentita più volte nella storia, specie a ridosso di grandi crisi, ma i “predatori” della Confindustria si sono ricompattati su questa idea.
Lo scontro frontale con questa concezione è inevitabile. Inutile cercare di aggirarlo con soluzioni più dolci, come la partecipazione di minoranza dello stato nelle imprese propugnata da Romano Prodi. Può sembrare paradossale dirlo, ma non è solo un problema di proprietà, quanto di scelte strategiche, di indirizzi concreti sul cosa, come e per chi produrre. Lo Stato deve riacquistare un ruolo di imprenditore e di innovatore, come dice Mariana Mazzucato, perché se, pur partecipando al capitale di rischio, seguisse la stessa logica che domina nel privato, resterebbe sempre una stampella del sistema attuale.
Lo si vede bene nella scuola. Gli stanziamenti previsti sono ben poca cosa rispetto alle necessità, molte delle quali sono precedenti alla crisi pandemica, praticamente croniche. Eppure il citato rapporto del Fmi chiarisce bene quale arretramento spaventoso può divenire per l’umanità intera da una prolungata perdita di apprendimento. La scuola pubblica è un investimento sociale non la formazione quadri per le imprese così come esse sono. E’ quindi lo Stato in primissima persona che se ne deve occupare, cominciando a regolarizzare l’esercito di insegnanti precari di cui finora si è servito e assumendone nuovi a tempo indeterminato.
Le vicende sanitarie che la pandemia ha evidenziato chiariscono quanto poco sia servita la proliferazione della sanità privata. Ma anche qui non si tratta solamente di costruire ospedali pubblici, anzi di uscire da una visione “Ospedalocentrica”, recuperando le migliori esperienze del passato, si pensi a quelle di Ivar Oddone, di Giulio Maccacaro, di Franco Basaglia, seppure in campi e discipline diverse. Si tratta di progettare la prevenzione e pensare a presidi sanitari articolati sul territorio.
Ed è sempre la pandemia in corso che ci sbatte in faccia il modo distruttivo con cui trattiamo l’ambiente e ci procuriamo la nostra alimentazione. L’ultimo focolaio epidemico apertosi nel mattatoio del Nord Reno Westfalia è un monito che ancora una volta rischia di non essere ascoltato. Si tratta del più grande mattatoio d’Europa che massacra ogni giorno ventimila maiali, per risputarli nel giro di 24 ore sotto forma di cotolette, macinato, duemila tonnellate quotidiane in tagli vari destinati al mercato di tutto il mondo, dalla Germania, all’Italia (per i prosciutti) a Hong Kong (le zampe). Ma anche in Italia non scherziamo nella concentrazione degli allevamenti animali. Non c’è bisogno di andare in Cina a visitare i mercati dei pipistrelli per studiare l’effetto spillover.
L’Europa ci chiede progetti precisi per concederci gli aiuti e i prestiti che peraltro vanno ancora definiti nelle prossime riunioni. Mentre vanno respinte le condizioni che sconfinano nella restrizione del welfare state, va colta l’occasione per cambiare gli assi strategici della produzione e quindi per creare nuovi spazi per l’occupazione.
Ma è difficile pensare che la risposta possa venire da Villa Dora Pamphilj. Lo si è visto nella prima dichiarazione di Conte, sul punto cruciale della riduzione dell’Iva che ha sollevato un vespaio di polemiche, peraltro le più sbagliate. Bisogna che il sindacato riacquisti e faccia valere una sua posizione creativa rispetto agli indirizzi generali della nostra economia. Questo è il terreno di scontro più alto con Confindustria che pensa addirittura a un piano 2030-2050. Questo è il terreno su cui si può salvare davvero l’occupazione e il futuro di un’intera generazione.