Torna alle Camere la manovra di bilancio e torna puntualmente la politica degli sgravi fiscali, nelle forme e nelle direzioni più disparate, come asse portante della politica economica del governo. Nel mare di austerità che ci siamo inutilmente e ingiustamente imposti, lo sgravio fiscale è l’unica zattera di galleggiamento che le nostre classi dirigenti sembrano in grado di immaginare per un Paese naufrago. Bisogna capire la filosofia che sta dietro alla politica degli sgravi fiscali e denunciarne i limiti.
Sia in termini di giustizia sociale che di equità fiscale e di sviluppo complessivo dell’apparato produttivo. Capire e denunciare dovrebbe essere alla base di ogni disegno alternativo di finanza pubblica. Perché gli sgravi fiscali – anche quando orientati “eticamente”: meglio detassare l’acquisto di biciclette piuttosto che quello di armi – nascondono ingiustizie ed illusioni.
Lo sgravio fiscale consiste all’atto pratico nel trasferimento di denari dalla fiscalità pubblica – cioè dalle tasche dei cittadini – nelle tasche dei privati produttori delle merci oggetto di sgravio.
Qui l’ingiustizia. A cascata tuttavia ciò va beneficiare i consumatori che possono acquistare merci a prezzi ribassati; i consumi possono così ripartire, si genera un meccanismo virtuoso in grado di agire da moltiplicatore del Pil – e dell’occupazione – ristabilendo così l’equilibrio nel bilancio dello Stato.
E qui sta l’aspetto illusorio: l’esperienza degli ultimi 30 anni ci dice che questo effetto risulta, quando va bene, momentaneo; che maggiore risparmio fiscale non si traduce in maggiori investimenti, che anzi crollano ormai da due anni, cioè da ben prima che subissero l’impatto della pandemia; che comunque la detassazione non apre la via a nuovi settori ad alto valore aggiunto, ma se va bene mantiene a galla un apparato produttivo già di per sé poco competitivo e foriero di far retrocedere il Paese nella divisione internazionale del lavoro. Oltretutto la crescita del Pil non ne risente: il debito emesso per far fronte agli sgravi, a differenza del debito “buono” di keynesiana memoria, non “si ripaga da sé”.
La filosofia che sta dietro alla politica degli sgravi è sempre quella di mettere il destino produttivo del Paese nelle mani degli imprenditori privati, tanto è vero che nella misura più emblematica e coerente da questo punto di vista – e più fallimentare – cioè il job act, gli aspetti di detassazione e di attacco ai diritti dei lavoratori erano esplicitamente legati.
Se davvero si vuole rimettere in moto l’apparato produttivo del Paese, stimolare l’innovazione, riportare la disoccupazione a livelli di decenza e allo stesso tempo ristabilire un minimo di equità questa filosofia andrebbe completamente ribaltata. L’innovazione tecnologica, l’occupazione, la riconversione ecologica, la ricucitura del divario tra le varie aree del Paese sono cose troppo serie per lasciarle nelle mani degli imprenditori: vanno perseguite attraverso una politica di investimenti diretti da parte dello Stato.
I consumi vanno rilanciati dal basso attraverso il rinnovo dei contratti del pubblico impiego e l’introduzione di un salario minimo adeguato – da quest’ultimo punto di vista si riscontra anche un certo ritardo da parte del sindacato, sospettoso che dietro questa parola d’ordine si celi la volontà di attacco al contratto nazionale di lavoro, un concetto ormai estraneo ad una massa crescente di salariati.
A cornice di tutto questo occorrerebbe la messa in campo di una vera e propria rivoluzione fiscale. La proposta di patrimoniale presentata alla Camera da alcuni deputati va in questa direzione, ma riscontra una debolezza propagandistica connaturata alla pervicacia con cui la sinistra si innamora di parole d’ordine poco spendibili nel senso comune del Paese. Si dovrebbe parlare, appunto, di rivoluzione fiscale e non di patrimoniale, mettere in chiaro fin dal nome che non si tratta dell’introduzione di nuove tasse, ma di un riequilibrio nella fiscalità del Paese che deve tornare a gravare sui pochi ricchissimi e non sui molti lavoratori.
E si dovrebbero immaginare misure strutturali, a partire da una revisione delle aliquote che colpisca le grandi rendite ed i grandi profitti degli speculatori (la proposta del ministro Gualtieri solo in parte risponde a questi criteri).
Purtroppo l’esperienza non è sufficiente a far pendere l’ago della bilancia dalla parte di queste misure, che a prima vista parrebbero di buon senso prima ancora che di giustizia sociale, visti i risultati fin qui conseguiti in anni di politiche pro-impresa.
Perché se è vero che fasce sempre più ampie della popolazione soffrono per le scelte fino ad oggi operate, è anche vero che c’è un enorme divario di rappresentanza politica e mediatica tra i pochi che ci hanno guadagnato ed i molti che ci hanno rimesso. Forse la prima riforma che la sinistra dovrebbe, più che imporre, auto-imporsi, è quella della ricostruzione della rappresentanza politica delle maggioranze sociali.