Privatizzazioni, luglio ’92: come l’Italia si privò delle sua industria pubblica

di Simone Gasperin - ilmanifesto.it - 12/07/2022
Trent'anni fa fu avviato il processo che portò alla vendita di 160 miliardi di asset. Doveva modernizzare il Paese, invece ha ridimensionato le grandi imprese (pure quelle private)

Il decreto n.333 dell’11 luglio 1992 segnò uno spartiacque nella storia del capitalismo italiano. Con la trasformazione degli enti pubblici economici (Iri, Eni, Enel e Ina) in società per azioni, il Paese avviò un mutamento profondo della propria “costituzione economica”. Formalizzato nel dettato costituzionale (Art. 42 e 43), il modello italiano di economia mista pubblico-privata fu meglio articolato con l’istituzione del Ministero per le Partecipazioni Statali (1956) e la programmazione economica (1967), ma si può retrodatare ai governi Giolitti di inizio secolo.

In quel periodo, lo Stato liberale italiano si fece “imprenditore”: decise la statalizzazione delle ferrovie (1905) e introdusse con l’Ina il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita (1912). Da quel momento, prima sotto il fascismo con la creazione dell’Iri (1933) e in seguito nel dopoguerra con l’istituzione dell’Eni (1953) e la nazionalizzazione dell’energia elettrica tramite l’Enel (1962), il capitalismo italiano assunse una forma non dissimile da quella di altre economie avanzate. Al tempo stesso, si sperimentarono formule originali che vennero studiate anche all’estero, tanto da fornire ispirazione per l’istituzione di holding pubbliche in Gran Bretagna, Svezia, Austria e perfino in Cina negli anni 90.

Questo perché il miracolo economico italiano, e il suo successivo consolidamento, furono trainati e orientati dalle grandi imprese pubbliche: l’Iri nelle infrastrutture (telefoni, autostrade, trasporti aereo e marittimo) e negli input di base per l’industria e le costruzioni (acciaio, cemento); l’Eni e l’Enel nella fornitura di energia a basso costo. Ma anche in una fase successiva, spesso superficialmente considerata di “degrado” del sistema, l’impresa a partecipazione statale garantì al Paese un presidio produttivo nei settori di punta: tramite l’Iri si consolidò la cantieristica nazionale dentro Fincantieri, si sviluppò una competitiva industria dei semiconduttori che diede origine a STMicroelectronics, si rilanciò la produzione aerospaziale nella Finmeccanica. Per non menzionare i risultati raggiunti negli anni Novanta, in seguito dilapidati, nel settore chimico (Montedison-EniChem) e delle telecomunicazioni (Telecom Italia).

Escludendo le aziende municipalizzate delle amministrazioni locali, il sistema di imprese pubbliche pre-1992 si divideva in aziende autonome, enti pubblici settoriali ed enti di gestione delle partecipazioni statali. Le prime, fra cui si annoveravano le Ferrovie dello Stato, le Poste, l’Anas, il servizio telefonico interurbano, erano bracci operativi di ministeri settoriali che svolgevano servizi di pubblica utilità con costi largamente coperti dal bilancio statale. Invece, gli enti pubblici settoriali (Enel, Ina, Imi, le grandi banche come Bnl e MontePaschi) e gli enti di gestione (Iri, Eni, Efim) possedevano una distinta natura giuridica e imprenditoriale. Pur operando secondo i canoni del diritto privato, assolvevano funzioni pubbliche di politica economica da declinarsi rispetto ai contesti tecnologici e di mercato.

Quando nel 1991 l’Italia raggiunse il rango di quarta potenza mondiale, superando la Gran Bretagna in termini di Pil pro capite, fra i 20 più grossi gruppi industriali del Paese se ne contavano ben 13 a controllo pubblico. L’Iri e l’Eni si collocavano rispettivamente all’11° e al 18° posto fra le più grandi corporation al mondo, secondo la rivista Fortune. Insieme impiegavano quasi mezzo milione di addetti, l’Efim altri 35 mila. Enel e Ferrovie ne contavano rispettivamente altri 110 mila e 170 mila. Le Poste avevano circa 240 mila dipendenti. Verso la fine degli anni Ottanta, le sole imprese a partecipazione statale pesavano per il 6% del Pil e per il 12% degli investimenti nazionali (le rimanenti imprese pubbliche sono stimabili su valori simili). Ancora nel 1990, circa il 75% del credito commerciale veniva erogato da banche pubbliche.

Con il decreto del 1992, quel sistema inizia ad essere smantellato e si inaugura la stagione delle privatizzazioni, di cui l’Italia divenne un campione mondiale negli anni 90. Secondo i dati di Privatizazion Barometer, nel corso del periodo 1992-2007 l’Italia privatizzò circa 160 miliardi di dollari di asset industriali. Le privatizzazioni furono motivate non soltanto dal proposito di “fare cassa” per ridurre il debito pubblico, ma anche come intrinseca operazione di politica industriale. Si sosteneva che la vendita ai privati avrebbe reso le imprese pubbliche “più efficienti”, rafforzando il tessuto produttivo del Paese. Viceversa, si è assistito alla scomparsa o al forte ridimensionamento della grande impresa privata: Fiat, Olivetti, Montedison, Pirelli e Falck. Le attività privatizzate più esposte alla concorrenza – fra cui Ilva, Italtel o successivamente Alitalia – hanno vissuto dei clamorosi fallimenti competitivi. In quelle a carattere monopolistico, in primis Telecom Italia e Autostrade, la profittabilità che prima costituiva una fonte interna di finanziamento del sistema pubblico si è trasformata in una rendita privata per pochi.

Paradossalmente, molte delle imprese italiane leader a livello mondiale sono ancora oggi partecipate dallo Stato. Fra le 20 più grandi per fatturato, 10 sono a controllo pubblico (6 fra le prime 10). Le 20 più grandi imprese a partecipazione statale, pur rappresentando il 2,9% degli addetti, pesano per l’8,1% del fatturato, il 17% degli investimenti e il 18,4% della spesa in ricerca e sviluppo sul totale delle imprese italiane (dati del 2018). Eni ed Enel sono le più grandi società per fatturato e capitalizzazione di borsa. Poste Italiane e Ferrovie dello Stato hanno il più consistente numero di addetti nel settore industriale. Ferrovie dello Stato è l’impresa che realizza il maggior volume di investimenti fissi nazionali, Terna la quarta. Leonardo è il primo gruppo del Paese per spesa in ricerca e sviluppo. Molte sono imprese leader a livello mondiale e presidiano settori strategici come STMicrolectronics nei semiconduttori, Leonardo nell’elicotteristica, Fincantieri nella cantieristica, Saipem nelle tecnologie ingegneristiche.

Tuttavia, rispetto al vecchio sistema pre-1992, è venuta meno quella funzione di politica economica che le imprese pubbliche avevano incardinato. Questo perché non si è solo ridotto il loro perimetro (sono peraltro scomparsi gli enti pubblici e le aziende autonome), ma è anche mutata la loro governance: nella sostanza sono assimilabili a imprese interamente private. Per esempio, sono soggette a una “finanziarizzazione” che limita il reinvestimento interno dei profitti a vantaggio di una generosa distribuzione di dividendi (di cui più della metà a capo di investitori istituzionali non italiani, nel caso di molte quotate) e favorisce operazioni di riacquisto delle azioni (nel 2022 si stima che varranno circa 3,1 miliardi, il 38% del totale nazionale).

Se lo Stato non fornisce un indirizzo e un coordinamento al sistema di imprese pubbliche, allora rinuncia a perseguire obiettivi pubblici di politica industriale per mezzo di esse. Eppure ciò non sarebbe impensabile, come dimostra l’ormai prossima nazionalizzazione di Edf in Francia, giustificata dall’obiettivo dell’autosufficienza energetica per mezzo di massicci investimenti nel nucleare e nelle rinnovabili.

Nel 1992 si credeva che in mani private l’economia italiana potesse fiorire. Ma a 30 anni dall’atto che decretò la fine dell’economia mista, il sistema produttivo è in una fase di profondo declino, quasi del tutto periferico rispetto all’oligopolio internazionale dei grandi player industriali e lontano dalla frontiera tecnologica in settori strategici. Forse sarebbe il momento di rivalutare il modello “storico” delle imprese pubbliche italiane, per orientare il potenziale tecnologico e produttivo delle imprese attualmente partecipate dallo Stato, non a vantaggio dell’arricchimento di pochi grossi investitori (spesso esteri), ma verso obiettivi di interesse economico generale.

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