Sembra incredibile, arriviamo impreparati nel momento preciso in cui si avvera ciò che avevamo previsto in dettaglio. Dove per “noi” intendo i movimenti critici della globalizzazione neoliberista e per accadimenti “previsti” intendo ciò che sta facendo la nuova amministrazione statunitense. Vediamoli in dettaglio.
Uno. La liberalizzazione dei mercati delle merci e dei capitali ha esasperato gli scompensi non solo tra le bilance commerciali degli stati, ma nella divisione internazionale del lavoro. Ed ora dobbiamo assistere alla turpe immagine di Tramp che difende l’“economia reale” accompagnato da un operaio e sorretto dai sindacati industriali nazionali!
Due. La droga della leva finanziaria utilizzata per assicurare alte rendite e rendimenti azionari doveva prima o poi esaurirsi. Ed oggi le borse, giustamente, si sgonfiano. Chi se ne importa – sembra dire il tycoon d’oltreoceano – degli umori dei mercati azionari: i lupi di Wall Street tornino a lavorare! Non sono gli indici delle borse, ma occupazione e salari ciò che conta.
Tre. Anche il debito pubblico US di 36mila miliardi di dollari – raddoppiato in dieci anni – non poteva più reggere. Lo paghino i paesi “friendly” in cambio della “protezione” militare e i paesi creditori in cambio di obbligazioni centenarie (dette “matusalemme”) emesse dalla Federal Reserve. I rendimenti dei capitali possono attendere; il “lungotermismo” (longtermism), è eticamente giusto e stabilizzante. In realtà lo spregiudicato presidente scommette sul fatto che gli Stati Uniti non sono ancora sfidabili per poter fallire senza tirarsi dietro tutti i suoi creditori. La Cina è pronta a rinunciare ai titoli di stato americani che ha nei forzieri? India, Emirati arabi, Sud Africa e Brics vari possono permettersi di rinunciare agli scambi commerciali con gli Stati Uniti? L’Europa in che squadra gioca?
Quattro. La crescita industriale sfrenata sta provocando danni ambientali enormi, fino a pregiudicare le stesse condizioni di abitabilità di intere regioni del pianeta. Di fronte a ciò le varie timide, contraddittorie versioni del “green deal” fin qui pensate dai governi progressisti sono davvero “ridiculous”, per usare un’espressione di Trump. Poco più che fumo negli occhi, incapaci di competere con un apparato industriale (a partire da quello high techk) famelico di energia. Non saranno le FER (fonti energetiche rinnovabili) a fermare un modello di crescita insostenibile. Senza una completa “green society” (copyright Aldo Bonomi) non ci sarà salvezza per il pianeta.
Cinque. Infine, la guerra. La posta in gioco è l’accaparramento delle risorse; quelle da comprare (Ucraina, Groenlandia… Africa) e quelle che rimangono ancora da colonizzare: spazio extra-atmosferico, fondali marini profondi, genomi vegetali e animali, mente e comportamenti umani. Trump ha dissotterrato lo spirito selvaggio originario, mercantile, predatorio del capitalismo sciovinista, suprematista, neocoloniale.
Possiamo ancora pensare di poter andare a patti con tale visione del mondo? O, peggio, di voler competere con questi “neofeudatari” (copyright Varoufakis) sul loro terreno di gioco preferito: competizione e crescita dei margini di profitto oligopolistici; moltiplicazione delle merci prodotte e consumate; accumulazione di capitali e loro sempre maggiore remunerazione? È tempo di pensare che la fine del capitalismo (e delle sue presunte comodità) sia meno rischiosa della terza guerra mondiale verso cui ci sta conducendo.