Nei corridoi della Corte penale internazionale, negli uffici, in aula, l’aria è pesante. Una cappa invisibile opprime il presente e l’immediato futuro: è la paura. Il timore di finire schiacciati, come singoli e come istituzione, per mano dei due più potenti nemici del tribunale che ha osato fare da argine all’impunità israeliana: l’amministrazione statunitense e il governo di Tel Aviv.
La pressione dei due paesi (non membri della Corte) non è una novità. Non lo sono nemmeno le sanzioni, la prima a subirle fu la gambiana Fatou Bensouda, procuratrice capo della Cpi tra il 2012 e il 2021. Ora però qualcosa è cambiato: l’accelerazione sul fascicolo Palestina e la decisione di agire per porre fine ai crimini che stanno lasciando Gaza e Cisgiordania in brandelli hanno innescato un’escalation di pressioni e minacce.
SONO VISIBILI nelle sanzioni, la nuova ondata di misure imposte dalla Casa bianca a febbraio sul procuratore capo Karim Khan e decine di funzionari della Corte e quelle più recenti, di tre giorni fa, contro i suoi vice procuratori. E sono visibili nello stallo, ingiustificabile dal punto di vista tecnico e legale, nell’emissione dei mandati d’arresto contro i ministri israeliani Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich per il crimine di apartheid, fermi da maggio.
La ragione è che alla Corte sono terrorizzati. «È la cosa che mi angoscia di più: hanno tutti paura, a ogni livello. Per l’istituzione, che rischia di essere distrutta, e per se stessi. Gli avvocati che collaborano con noi dagli Stati uniti sono scomparsi. Altri partecipano agli incontri a patto che non si discuta della Corte. Associazioni per i diritti umani pubblicano rapporti sulla base di materiali e prove raccolte in Palestina ma non li consegnano: nel momento in cui diventi un interlocutore della Cpi, rischi».
A parlare con il manifesto è un legale, da anni impegnato all’Aja al fianco dell’ufficio Vittime della Corte. A 23 anni dalla sua fondazione, una crepa si allarga indisturbata sull’edificio simbolo della tutela del diritto internazionale, e si chiama Palestina. È capace di farlo crollare, quell’edificio. «Israele non è spaventato da nessun rapporto, ma dalla Corte sì, la teme: è consapevole che, se cambiano le regole del gioco che finora gli sono state garantite, gli si toglie da sotto i piedi il terreno dell’impunità».
Quel terreno ha iniziato a tremare nel gennaio 2024. Ad appena tre mesi dall’inizio dell’offensiva a Gaza, la Corte internazionale di Giustizia (Cig) ha accolto la denuncia del Sudafrica contro Israele per il crimine di genocidio. Lo avrebbe ribadito a maggio. A novembre 2024, la seconda scossa: su richiesta del procuratore capo della Cpi, Karim Khan, la Camera preliminare ha emesso mandati d’arresto per crimini di guerra e contro l’umanità per il premier israeliano Benjamin Netanyahu, l’allora ministro della difesa Yoav Gallant e per tre leader di Hamas, Yahya Sinwar, Mohammed Deif e Ismail Haniyeh (poi decaduti: Israele con tre omicidi extragiudiziali li ha eliminati tutti).
«È DIFFICILE spiegare l’accelerazione di Khan sulla Palestina, dopo anni di stallo – aggiunge la fonte – Avendo partecipato a tanti incontri con lui, posso dire che un ruolo determinante l’ha giocato la società civile palestinese, gli ha messo le prove sotto il naso. Nel momento in cui ha iniziato a lavorare, non si è più fermato. Nell’inchiesta, ed è questo che fa paura a Israele, non c’è solo Gaza: ci sono le colonie e c’è l’apartheid. Paradossalmente quello che più dà fastidio a Tel Aviv, più dei mandati d’arresto, sono le indagini sulle colonie: possono avere un effetto a catena su tutta l’impresa israeliana».
Qualche settimana dopo, Khan sarebbe stato travolto da accuse di molestie sessuali, mosse da una collaboratrice, fino alla decisione – lo scorso maggio – di mettersi in ferie forzate in attesa delle indagini.
Accuse che, secondo inchieste fondate su interlocuzioni private tra il procuratore e la donna, sono state usate per frenare il fascicolo Palestina. L’effetto si è visto subito: il concomitante stop ai mandati d’arresto per Ben Gvir e Smotrich. Le indagini sono affidate ai due vice procuratori che «si stanno prendendo tempo per leggere l’incartamento, basterebbe una settimana. La realtà è un’altra: sanzioni Usa e intimidazioni israeliane hanno effetti sulla Corte e sui suoi organi, compreso l’ufficio della Procura. La domanda a questo punto è una: se queste pressioni funzioneranno, chi e quando staccherà la spina alle indagini?».
Molto dipenderà dal destino di Khan, su cui indaga un meccanismo di indagine esterno. «So con certezza che in un incontro confidenziale la presidente della Cpi gli ha chiesto di dimettersi ma lui non lo ha fatto. Eppure già a gennaio 2025 lo si dava per dimissionario, non si parlava d’altro sia all’Assemblea degli Stati membri sia tra i suoi più stretti collaboratori».
La decisione di farsi da parte è seguita all’intimidazione più plateale, resa nota a metà luglio da un Khan totalmente isolato (anche dalla comunità degli avvocati di Londra di cui era uno dei membri più accreditati): Nicholas Kaufman, avvocato britannico-israeliano, ha approcciato Khan in un hotel dell’Aja il primo maggio per fermare i mandati contro Ben Gvir e Smotrich e ritirare quelli contro Netanyahu e Gallant. «Distruggeranno te e distruggeranno la Corte», si legge nella registrazione del meeting, visionata da Middle East Eye.
INTIMIDAZIONI che, secondo inchieste giornalistiche, seguivano a quelle esercitate nella primavera 2024 dall’allora segretario agli esteri britannico Cameron e dal senatore repubblicano Usa Graham: rispettivamente ritiro dei fondi alla Cpi e sanzioni se avesse proceduto con i mandati.
Parziale conferma l’ha data lo stesso Kaufman a Mee: «Non nego di aver detto al signor Khan che avrebbe dovuto cercare una via per districarsi dai suoi errori». Due settimane dopo il procuratore si è messo in ferie forzate. Kaufman non è una figura qualsiasi: ha presentato alla Corte memorie a difesa di Israele, rappresenta imputati all’Aja (oggi è il legale dell’ex presidente filippino Duterte): «Ai sensi dello statuto della Cpi, quello che ha fatto Kaufman è ostruzione alla giustizia. La Corte avrebbe dovuto aprire indagini interne, è una persona che ogni mattina va a difendere qualcuno di fronte ai giudici. Non lo ha fatto, di nuovo, per paura», commenta la fonte.
«Mi baso sulle parole di diverse fonti all’interno della Corte e sui meeting a cui ho partecipato: se salta Khan, saltano le indagini. Come accadrà non è ancora chiaro: se si aprirà subito la procedura per la nomina di un nuovo procuratore, Usa e Israele metteranno in campo la diplomazia più pesante per eleggere una figura a loro vicina; se si nominerà nel frattempo un procuratore ad interim, condurrà il lavoro su un binario morto. Perché il punto resta lo stesso: nessuno, lì dentro, vuole prendersi in carico il file Palestina».
L’unica possibilità di salvare le indagini palestinesi e il futuro delle istituzioni internazionali è il supporto politico esterno, oggi assente. A New York, l’8 luglio, all’Assemblea dei 125 Stati membri della Cpi il consigliere legale del Dipartimento di Stato Usa, Reed Rubinstein, ha platealmente minacciato la Corte: «Ci aspettiamo che tutte le azioni della Cpi contro gli Stati uniti e il nostro alleato Israele, le indagini e i mandati d’arresto, siano terminati…Useremo tutti gli strumenti diplomatici, politici e legali appropriati ed efficaci per bloccare l’eccesso di potere della Cpi». Davanti a una simile aggressione, nessuno degli Stati presenti ha reagito.
«SONO TUTTI terrorizzati – continua la nostra fonte – Ognuno aspetta che sia qualcun altro a prendersi la responsabilità di staccare la spina. Senza appoggi esterni, qualcuno lo farà, o la Camera preliminare o la Camera d’Appello. Se accoglieranno il ricorso di Israele sulla giurisdizione (al momento ce ne sono due), salterà tutto. È possibile che lo si faccia come forma di protezione dell’istituzione. Ma lascerebbe il tempo che trova: la Cpi potrebbe pure restare aperta ma senza più legittimità e credibilità».
Le crepe corrono sull’edificio, si moltiplicano. Anche dall’altra parte del pianeta: le enormi pressioni degli Stati uniti sul Sudafrica avrebbero privato Pretoria dell’unanimità del governo sulla denuncia presentata all’Aja.
Il modus operandi è identico, che si tratti di giudici, legali, attivisti o Stati: costringerli sulla difensiva. «Israele e Stati uniti impegnano il tuo tempo e le tue energie a difenderti, invece di lavorare e costruire. Per questo serve sostegno, da sola la Corte non può farcela».