La riforma Cartabia non risolve i problemi della giustizia, anzi: per me è piena di contraddizioni

di Paolo Maddalena - ilfattoquotidiano.it - 27/07/2021
Una riforma, che può certamente far comodo alle multinazionali, alla finanza e a quanti illecitamente, o mediante le micidiali privatizzazioni, si impossessano del nostro patrimonio pubblico, ma che certamente ha un costo enorme in termini di sicurezza e di attesa di giustizia da parte del Popolo italiano

Il progetto di riforma sulla giustizia, che non piace neppure a chi l’ha redatto (la ministra Marta Cartabia, che si è trovata nella necessità di mettere assieme le più svariate proposte provenienti dai partiti), a mio avviso non risolve affatto i problemi della giustizia, anzi è piena di contraddizioni, di norme incostituzionali e anche di qualche errore di grammatica giuridica.

Quanto al noto problema della prescrizione, che il ministro Bonafede vuole che sia senza termine, si dà ragione a quest’ultimo e si prescrive che “il corso della prescrizione cessa definitivamente con la pronuncia della sentenza di primo grado”. Tuttavia, per assicurare tempi certi e ragionevoli al giudizio, si prescrive altresì che la “mancata definizione del giudizio di Appello entro il termine di due anni (dalla sentenza di primo grado), e del giudizio di Cassazione entro il termine di un anno (dalla sentenza di secondo grado), costituiscono cause di improcedibilità dell’azione penale”. Come agevolmente si nota, il principio della non decorrenza dei termini della prescrizione dopo la sentenza di primo grado è assurdamente contraddetto da questa seconda norma che considera “improcedibile” l’azione entro il termine di due anni dalla sentenza di primo grado, se si tratta di Appello, e entro il termine di un anno dalla sentenza di Appello, se si tratta del giudizio di Cassazione.

Insomma, prima si afferma e subito dopo si nega. E lo si fa mediante un errore di grammatica giuridica. Infatti, mentre la prescrizione, che è istituto sostanziale che riguarda il reato in sé, non si verifica, l’azione penale, e cioè un istituto processuale, diventa “improcedibile”, se la sentenza di Appello non è emessa entro due anni dalla sentenza di primo grado e se la sentenza di Cassazione non è emessa entro un anno dalla sentenza di Appello. Un obbrobrio giuridico.

Ma c’è di più. Chi conosce i carichi della Corte d’appello e ancor più i carichi della Corte di Cassazione sa bene che questi termini non potranno mai essere rispettati. In tal modo, nel pieno rispetto delle teorie berlusconiane, si ottiene il risultato (che si voleva evitare con il blocco dei termini di prescrizione) di farla fare franca a chi ha commesso i delitti più gravi. Proprio un bel risultato!

Il provvedimento adottato è comunque, a mio sommesso avviso, contrario all’art. 111 della Costituzione, il quale vuole che “la giurisdizione si attua mediante giusto processo regolato dalla legge”: vuole cioè che il processo si svolga in tempi ragionevoli, ma non vuole assolutamente che “non si attui”.

Altro dato inaccettabile è quello che in pratica prelude all’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale, prevedendosi in questo disegno che gli Uffici del pubblico ministero individuino ”criteri di priorità trasparenti e predeterminati” da indicare “nei progetti organizzativi delle Procure della Repubblica”, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, tenendo conto anche del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente delle risorse disponibili. Certamente è importante dare precedenza alle notizie di reato concernenti delitti più gravi, sia in se stessi sia per l’allarme sociale che suscitino, ma quello che è impossibile sancire è che restino reati non perseguiti, come si ricava dal riferimento alle limitazioni derivanti dalle scarse risorse disponibili.

A questo proposito ha perfettamente ragione il Procuratore della Repubblica di Catanzaro Gratteri, quando dice che la vera riforma risolutiva è una sola: quella di dotare gli uffici giudiziari, i cui ruoli da tempo presentano vuoti inimmaginabili, di più magistrati, più personale addetto e maggiori strumenti meccanici e telematici. Anche questa disposizione mi sembra in contrasto con la Costituzione, e cioè con gli artt. 3 e 101 Cost., stabilendo l’art. 101 Cost. che “la giustizia è amministrata in nome del popolo” e stabilendo l’art., 3 Cost., che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge”.

Altro aspetto preoccupante di questa disposizione è il fatto che i criteri di priorità di cui si parla devono essere stabiliti dagli uffici del pubblico ministero “nell’ambito dei criteri generali indicati con legge del Parlamento”. Non può sfuggire che, così facendo, si dà un colpo all’indipendenza della magistratura e si aprono le porte alla possibilità che certi reati commessi da politici non rientrino tra quelli da perseguire.

Anche questa parte della riforma presenta, a mio avviso, profili di incostituzionalità per violazione del citato art. 101 della Costituzione, il quale nell’affermare che “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”, ribadisce il principio della separazione dei poteri e esclude che “la legge”, che il magistrato deve applicare, possa poi intervenire nello svolgimento della funzione giurisdizionale.

In conclusione, una riforma che può certamente far comodo alle multinazionali, alla finanza e a quanti illecitamente, o mediante le micidiali privatizzazioni, si impossessano del nostro patrimonio pubblico, ma che certamente ha un costo enorme in termini di sicurezza e di attesa di giustizia da parte del popolo italiano.

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