Finalmente siamo passati oltre. Abbiamo smesso di digerire il caotico, e spesso approssimativo, dibattito sulla cattura di Matteo Messina Denaro, che ha trasformato il risultato di anni di duro lavoro e inchieste in una banale quisquiglia da social. L’attenzione si è già spostata su altre vicende sulle quali sciorinare opinioni: la bidella campana in cerca di affitto, i frati che si prendono a palle di neve, i guai del calcio, l’avvicinarsi di Sanremo, i casi di cronaca nera o le tragedie umane farcite di ignobili giudizi, e così via. Il pentolone del dibattito ossessivo, dove la competenza non conta quanto la velocità di scrittura o la cazzimma nel sostenere qualsiasi tesi, cuoce di continuo e va avanti. Passata la prima valanga di opinioni sulla cattura del boss, adesso, fuori dalla frenesia e dal corridoio affollato del commento impulsivo e compulsivo, più emotivo e complottista che razionale e basato sulla conoscenza, è possibile con calma fare un passo indietro.
Per provare ragionare su altro, ossia sul ruolo e sui comportamenti di chi dovrebbe avere gli strumenti per depurare i fatti dai contorni della fiction, lasciando che a prevalere sia l’informazione, quella capace di stimolare la comprensione anche per chi è neofita rispetto a una materia. Inutile, in questa sede, dibattere sullo stato di salute del giornalismo italiano, perché anche qui si rischierebbe di precipitare nel cliché della polarizzazione, della diatriba tra la fazione dei catastrofisti, quelli per i quali noi giornalisti siamo tutti uguali, servi del sistema, bugiardi, venduti, e la fazione degli oltranzisti, quelli che difendono la categoria sempre e comunque, dando la colpa ad altri, ai social, ai siti non ufficiali, ai tanti non professionisti della materia che blaterano sul web, ai giovani, senza mai assumersi una responsabilità.
Infilarsi in questa contrapposizione sarebbe sbagliato, noioso e inutile, perché come sempre la verità sta nel mezzo e ci parla di un sistema editoriale in crisi e di un giornalismo di qualità o indipendente sempre più raro e in ogni caso più schiacciato, ma anche vivo, ricco di validi rappresentanti e meritevole di obbligatorie distinzioni da una massa che, in maniera evidente, calpesta brutalmente ogni deontologia. Il tema della narrazione di un fatto, però, ci riguarda tutti, in maniera più o meno diretta e più o meno attiva. Che cosa vogliamo fare del giornalismo? Che idea e che etica assegniamo a quello che è un elemento fondamentale della democrazia e della crescita culturale di un Paese moderno? In che modo si vuole contribuire alla costruzione di una coscienza collettiva che sembra essere prigioniera di una crisi inarrestabile? In poche parole: che futuro si aspetta un giornalismo che ha sostituito l’informazione con il gossip o la fiction?
La vicenda dell’arresto di Matteo Messina Denaro è emblematica in tal senso. La narrazione di una buona parte delle testate, anche quelle un tempo più credibili e strutturate, ha evidenziato delle falle preoccupanti. Attorno al boss, in molti hanno edificato un racconto che in qualche modo non ne demolisce la sagoma, ma anzi ne mitizza il potere e la spavalderia, facendo scolorire la pochezza e la volgarità tipiche di un boss mafioso, la sua dimensione bestiale e spietata. Abbiamo letto del suo orologio di lusso, dei Ray-Ban, del suo abbigliamento griffato, delle sue donne, del viagra e dei preservativi, della cura del suo corpo, del suo essere depilato e muscoloso, dei selfie, della figlia, delle automobili, dello champagne, del rispetto che gli mostravano quando andava al bar, del vecchio amico di infanzia, che gli ha fatto i vaccini senza riconoscerlo, e altre dabbenaggini. Sul suo potere e sulla sua ferocia, invece, molto poco.
L’unica storia più volte citata è quella dell’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, una storia sulla quale è semplice suscitare l’indignazione dell’opinione pubblica, anche se però si tratta di una indignazione emotiva, lontana dalla comprensione di quello che è realmente il sistema mafioso. A ciò aggiungiamo la diffusione virale della videointervista dell’ex compare dei fratelli Graviano, Salvatore Baiardo, alla quale è stata assegnata assoluta importanza, in barba ai criteri più elementari del giornalismo, come la verifica della sua (poca) credibilità, i riscontri, le prove, tutto ciò al quale l’intervistatore ha evitato di prestare attenzione. Insomma, alla fine, Messina Denaro esce fuori come un boss atipico, spietato certo, ma alla fine educato, curato, furbo, capace di sfuggire allo Stato per poi scegliere di farsi prendere perché malato. Non importa contrapporre dati e fatti, perché tanto sarebbero dettagli gettati nel fuoco incessante degli opinionisti da tastiera e di quei giornalisti in cerca di scoop o complotti da buttare in pasto al popolo.
Il punto è proprio questo: la gran parte dei commentatori, con poche e come sempre prestigiose eccezioni, ha girato attorno ai dettagli, ha costruito una narrazione da fiction, irritante, sterile, vuota, qualcosa che purtroppo passa, perché ormai una cospicua fetta di lettori vuole questo, vuole dettagli, brama aspetti secondari e curiosi, sui quali magari ironizzare, oppure elementi sensazionali privi di fondamento o quantomeno di verifiche, decontestualizzati, semplificati al limite della banalità spicciola. Il fatto viene spolpato e ridotto all’osso. Diventa resto, avanzo consumato e gettato in un angolo di una strada, tra centinaia di altri rifiuti. Lo spazio per il ragionamento si riduce sensibilmente. Non si ricostruisce una vicenda, non si narrano le correlazioni con il potere, le coperture e le complicità già raccontate dalle inchieste, dalle decine di operazioni di questi anni, le parentele, i rapporti diretti con certi personaggi, i quali a loro volta erano in stretto rapporto con gente che oggi ricopre ancora ruoli governativi e politici di primo piano.
Non si fanno i nomi di rappresentanti di forze politiche attualmente al governo, persone di fiducia di importanti leader nazionali, le quali sono finite in passato negli ingranaggi della giustizia, proprio per le loro vicinanze al sistema del boss, ad imprenditori discussi, ai fiancheggiatori o prestanome del padrino. Dall’arresto di Matteo Messina Denaro si potrebbero trarre molte domande, andando a ritroso, da rivolgere a diversi personaggi politici. Non accuse, naturalmente, ma richieste di chiarimenti, perché il sistema mafioso le istituzioni le ha toccate a lungo e qualsiasi contatto, anche indiretto, andrebbe spiegato.
Non si può non parlare con coloro i quali hanno condiviso governo e azione politica con D’Alì, ex sottosegretario agli Interni ed ex presidente della Provincia di Trapani, condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. Né si può evitare di parlare con chi ha intrattenuto rapporti stretti con Carmelo Patti, imprenditore, ex patron di Valtur, accusato di legami con la mafia e destinatario di un provvedimento di sequestro e poi di confisca dei beni di dimensioni enormi. Questi e altri personaggi hanno intrattenuto relazioni con politici attualmente in sella. Insieme a loro ci sono anche quelli che facevano affari con i padroni delle rinnovabili in Sicilia, tutti legati al boss arrestato.
Il sistema Denaro, infatti, si è avvalso di un potere e di una rete di protezione enormi e ramificati. Ha affondato le mani nella borghesia trapanese, palermitana, siciliana e italiana. Ha avuto contatti più o meno diretti con le istituzioni. Allora, forse, sarebbe il caso, di iniziare a rendere “mainstream” il racconto di questo sistema, con i nomi e i cognomi, le domande, la descrizione di una figura vigliacca, sanguinaria, immorale, ma potente solo grazie ai complici e non a una particolare abilità. La si smetta di mitizzare i mafiosi o di narrarli come imprendibili o come dei padrini alla Scarface, romanzandone le vite, con dettagli sui vizi e sulle furbizie. Messina Denaro è stato preso, perché lo Stato è stato più forte e ostinato.
La si smetta di alimentare complotti, di umiliare i fatti, di riempire il racconto di dettagli imbarazzanti, surreali, vuoti. Si cerchi piuttosto di informare l’opinione pubblica su tutto quello che è il sistema che ha protetto Denaro e si rivolgano le domande a coloro i quali, per anni, hanno intrattenuto rapporti con personaggi che con il boss hanno avuto legami e ai quali hanno affidato persino ruoli. Si recuperino la dignità e l’etica di una professione che non deve puntare alla fiction ma alla verità e alle sue declinazioni possibili. Servono domande, quelle giuste e ai giusti interlocutori. Sono necessari verifiche e approfondimenti. Solo così potremo tornare a educare una popolazione sempre più tragicamente allergica al ragionamento critico e sempre meno informata sulle reali dinamiche di potere che coinvolgono le mafie.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org