Al tempo del governo gialloverde, politici e osservatori di tutto il mondo si sono interrogati per oltre un anno, con viva preoccupazione, sulla natura del primo esecutivo «interamente populista» d’Europa. Temo si siano tranquillizzati troppo presto. Ma se volessero approfondire la loro indagine sulle radici del populismo italiano, in attesa di capire che strada prenderà il nuovo governo, suggerirei loro di guardare gli interventi di Piercamillo Davigo a Dimartedì. L’ultimo in particolare, dedicato ai giudizi che l’autorevolissimo Presidente della seconda sezione penale presso la corte suprema di Cassazione non poteva pronunciare a proposito dei recenti scandali che hanno colpito il Consiglio superiore della magistratura (di cui è membro togato, componente della sezione disciplinare).
Problema che il conduttore e gli altri giornalisti presenti hanno aggirato limitandosi ad affrontare la questione nei suoi termini generali – cioè, né più né meno, se non ci sia il rischio che i cittadini si convincano che i magistrati siano «come i politici» – sollecitando questo genere di risposte: «Mi dispiace perché intanto i magistrati vengono sottoposti a procedimento penale da altri magistrati; in Parlamento in genere si perdonano vicendevolmente». O anche: «Non siamo uguali. Perché con orgoglio devo dire una cosa: i nostri che sono stati coinvolti in queste vicende si sono dimessi tutti. Io di parlamentari che si dimettono faccio fatica a ricordarne». O ancora: «Noi viviamo in un ambiente riparato. Siamo pagati abbastanza bene e non abbiamo bisogno di rubare… per la verità anche i parlamentari, ma forse loro hanno più spese».
Naturalmente nessun magistrato si è dimesso da magistrato, semmai si è dimesso (o semplicemente sospeso) da membro del Csm, esattamente come i tanti parlamentari indagati che si sono dimessi (o semplicemente sospesi) dai propri incarichi di governo o di partito. Per non parlare del lungo elenco di magistrati le cui inchieste sono finite nel nulla, dopo aver fatto cadere governi, sbattuto innocenti in prigione, distrutto vite e carriere di un sacco di gente che non c’entrava niente, e sono stati regolarmente non solo perdonati, ma pure promossi. Ma il meglio è stato quando, replicando al conduttore che parlava delle tante inchieste per abuso d’ufficio che colpiscono gli amministratori locali, Davigo replicava serafico: «Io di condanne ne ho viste pochissime». Ed è un vero peccato che nessuno gli abbia controreplicato che è proprio questo il problema.
Ma probabilmente sarebbe stato inutile, giacché Davigo sembra fermamente convinto che per un innocente l’essere messo sotto inchiesta sia l’equivalente di una visita di controllo dal medico, una forma di profilassi non solo innocua, ma persino salutare. Il fatto che sotto inchiesta un cittadino ci possa restare per anni – e il fatto che nel caso di un politico, nel frattempo, tutte le sue private conversazioni, le accuse e i sospetti che lo riguardano possano finire su giornali e tv – tutto questo agli occhi di Davigo non meno che dei suoi gentili intervistatori, evidentemente, non rileva. E la ragione è fin troppo banale.
Ed è che dai tempi di Mani pulite, anche con questi metodi, la politica è stata costretta nella posizione del capro espiatorio, unica e sola «casta» responsabile di ogni male del paese, mentre magistrati e giornalisti (e relativi editori) possono continuare a lavorare con la serenità di chi sa di poter commettere qualunque errore, sicuro di non doverne rispondere mai. La ragione per cui in Italia il populismo è ben più radicato, pervasivo e persistente che altrove è tutta qui. Perché in America ci sono Donald Trump, la Fox News, le radio e i siti web dell’Alt right, ma ci sono anche il New York Times e la Cnn.
Da noi, da almeno trent’anni, ci sono solo diverse sfumature di populismo.