Ho già denunciato la spinta populista e le suggestioni alla base dei cinque quesiti referendari, di cui pericolosi sono i primi tre, inutili gli ultimi due. Al di là dell'incomprensibilità dei testi, serve il disvelamento di ciò che è taciuto, nascosto o contraddittorio.
Primo quesito: si vuol abolire il decreto legislativo "Severino" che presenta una parte condivisibile e una discutibile. Non pare ingiusta, cioè, la previsione di incandidabilità, ineleggibilità e decadenza automatica per parlamentari, rappresentanti di governo e amministratori regionali e sindaci nel caso di condanne definitive per reati gravi. Punto critico, invece, è la sospensione per reati non gravi o abusi di potere oggetto di condanne non definitive.
Orbene, i proponenti il referendum parlano solo di questo secondo aspetto, in nome della necessità di garantire la presunzione di innocenza (giusto!), tacendo sul fatto che, se passasse il "sì", pregiudicati, anche recidivi, rimarrebbero in carica, in violazione dell'interesse dei cittadini alla correttezza dell'agire pubblico.
Nessuno dice: "È questo che volete? Sì o No?". Si parla solo dei sindaci assolti, con silenzio anche sui due ddl presentati dal Pd per modificare la norma. Perché il silenzio? Eppure basterebbe che non si candidassero condannati e, in base a codici etici, ne fosse esigibile l'autosospensione.
Con il secondo quesito si intende cancellare una delle tre ragioni di possibile applicazione delle misure cautelari (non solo la custodia in carcere, ma anche arresti domiciliari e misure interdittive varie), cioè il pericolo di reiterazione di delitti della stessa specie di quelli per cui si procede (gli altri due sono rischio di fuga e di inquinamento delle prove). Si vuole eliminare, cioè, il più diffuso motivo di misure cautelari.
Si tratta di una strada che smantellerebbe ogni forma di contrasto di attività criminali in corso e seriali. Sarebbero favoriti non solo gli autori di reati persecutori, esponendo le vittime al pericolo, ma anche di bancarotte, reati dei "colletti bianchi", come corruzione, peculato, manipolazione dei mercati e finanziamento illeciti dei partiti e altri.
Si immagini il caso di un ladro arrestato in flagranza mentre compie un furto in una casa privata: oggi il giudice deve convalidare l'arresto ed eventualmente emettere un provvedimento cautelare, il che non sarebbe più possibile, neppure se il ladro fosse recidivo. Pur dopo una condanna con rito direttissimo, il giudice dovrebbe scarcerarlo per mancanza di rischio di fuga e di inquinamento probatorio derivanti dall'arresto in flagranza. È questo che volete? Sì o no?
Ma la contraddizione più insanabile è quella secondo cui il "sì" al secondo quesito si imporrebbe anche alla luce delle scarcerazioni e assoluzioni di arrestati disposte dai giudici che disattendono le ansie giustizialiste dei pm, mentre il "sì" al terzo quesito sulla separazione delle carriere sarebbe necessario perché troppe condanne sono conseguenza della contiguità dei giudici con le tesi dei pm. Allora i giudici si appiattiscono sulle tesi dei pm o le smentiscono? E perché mai, sempre sul terzo quesito, si fanno affermazioni non vere sul fatto che la separazione delle carriere costituirebbe l'assetto ordinamentale degli ordinamenti degli altri Stati europei tacendo sulla diffusa dipendenza del pm dall'esecutivo ove la carriera del pm è separata da quella del giudice?
Chiedo ai sostenitori del "sì", lo sapete che con una raccomandazione del 2000 del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa si auspicano "passerelle tra funzioni di giudice e pm" per meglio garantire i cittadini? "Sì o no"? L'Europa viaggia verso quel modello che, invece, in Italia viene messo in discussione, un modello che obbliga il pm a indagare anche a favore dell'imputato, in quanto tenuto alla ricerca della verità secondo canoni della valutazione delle prove simili a quelli usati dal giudice (ecco cos'è la cultura giurisdizionale).
E la separazione delle carriere che si vuole introdurre non c'entra nulla con il principio costituzionale del giusto processo che si fonda sulla parità processuale delle parti, prevede indagini difensive e consente all'avvocato di sostenere la tesi dell'innocenza del suo assistito pur quando ne conosce la colpevolezza.
Per finire sul terzo quesito, poi, si strumentalizzano le parole di Giovanni Falcone sostenendo che fosse favorevole alla separazione delle carriere. Questo non è vero, come sanno coloro che gli erano vicini e come ha precisato il cognato Alfredo Morvillo.
Con il quarto quesito si vuole introdurre la possibilità - ora negata - che gli avvocati, quali membri "laici" dei Consigli giudiziari e del Consiglio Direttivo della Cassazione, esprimano parere e voto in ordine alle valutazioni di professionalità dei magistrati, su cui comunque poi decide il Csm.
La proposta è inutile perché preferibile è la soluzione prevista nel ddl di riforma Cartabia, già approvato dalla Camera e che condivido, secondo cui il voto degli avvocati dovrebbe essere unanime e conforme alla valutazioni del Consiglio dell'Ordine forense competente: si eliminerebbe anche il rischio di pareri condizionati da episodi di dialettica processuale, argomento ingiustificatamente sostenuto da certi magistrati.
La contraddizione vale anche per il quinto e ultimo quesito, inutile e bizzarro: si vuole scardinare il correntismo, con cui si indicano inaccettabili deviazioni e criticità dell'azione delle correnti dell'Anm (nel cui valore culturale credo), eliminando la necessità di presentare almeno 25 firme di sostegno per candidarsi alle elezioni del Csm.
In tal modo, si dice, non sarebbero le correnti a decidere chi si candida. Ipotesi inutile rispetto agli scopi dichiarati poiché è evidente che il temuto ruolo delle correnti non sarebbe eliminabile nella fase del voto. Meglio la proposta Cartabia, con un diverso sistema e l'eliminazione delle firme di presentazione dei candidati.
Ai cittadini, qualunque sia il loro orientamento, chiedo e auguro una scelta consapevole. Nulla di ciò che viene proposto serve al buon funzionamento della giustizia.