Attorno a Gaza, un diluvio di cecità

di Gianluca Solera - comune-info.net - 24/10/2023
Ci sono autostrade che collegano le città israeliane con le colonie nella Cisgiordania occupata, protette ai lati da barriere antirumore in cemento, su cui sono disegnate colline verdi e paesaggi idilliaci. Dietro, i palestinesi, sono semplicemente un popolo fantasma

La sfida più difficile per Israele è cosa fare con della gente fantasma. I palestinesi, la questione palestinese sono stati rimossi da ormai troppi anni dall’agenda politica di Israele e dalla coscienza collettiva della maggior parte dei suoi cittadini. I palestinesi sono semplicemente un popolo fantasma. Gli effetti di questa rimozione li ho visti con i miei occhi. Ci sono autostrade che collegano le città israeliane con le colonie situate nella Cisgiordania occupata, protette ai lati da barriere antirumore in cemento, su cui sono disegnate colline verdi e paesaggi idilliaci. Dietro quelle barriere, però, non ci sono colline verdi, ma i villaggi palestinesi, nascosti alla vista degli automobilisti israeliani. Non ho mai dimenticato quell’immagine, che mi è rimbalzata nella mente dopo il drammatico attacco del 7 ottobre scorso contro il territorio israeliano, il «diluvio di Al-Aqsa», come l’hanno nominato i suoi autori.

Gente fantasma, sì. Non mi spiegherei altrimenti come un rave party possa tenersi a meno di 5 km dai confini con la Striscia di Gaza, i cui abitanti vivono in uno stato di semi-detenzione, dietro una barriera chiusa da molti anni. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore, verrebbe da dire.

Il rave party, però, è stato fatto il giorno sbagliato: più di duecentocinquanta persone sono state uccise a colpi di arma da fuoco dai militanti palestinesi arrivati dal cielo; un crimine di guerra, forse il più emblematico, insieme a quello del bombardamento dell’ospedale Al-Maʿmadaani di Gaza, tra quelli che si sono succeduti dal quel 7 ottobre ad oggi. Un crimine assurdo, ma non meno assurdo del destino dei palestinesi. Immaginate quei giovani militanti armati che atterrano sul suolo israeliano con rudimentali parapendii motorizzati; un sogno inaspettato e impossibile di per sé, il fatto che potessero attraversare in modo così rocambolesco i confini più pattugliati della terra e vedere cosa c’era oltre, dopo anni di assedio e isolamento. E cosa hanno visto? Persone che ballano.

Il mio migliore amico a Gaza mi ha spiegato questo: «La maggior parte di quei combattenti di Hamas sono giovani, non hanno sperimentato altro che oppressione e assedio e non avevano mai avuto a che fare con gli israeliani prima di quel momento; nella loro mente, considerano i coloni come dei criminali, come dei soldati; questa è l’immagine che hanno degli israeliani che vivono attorno a Gaza». Quindi, quando sono atterrati dall’altra parte, non hanno visto che migliaia di coloni in procinto di festeggiare. Un oltraggio.

Il mio migliore amico a Tel Aviv ha commentato la scena aggiungendo: «Capisco il contesto, ma questo non libera nessun essere umano dalla responsabilità dell’umanità. Combattere è una cosa, giustiziare una madre con dei bambini è un’altra cosa». Queste esternazioni, che ho ricevuto sul mio telefono nelle prime ore di questa nuova guerra, sono ponderate e franche, e danno un’immagine materiale di ciò che accade sul terreno e nella mente delle persone, quando l’assurdo diventa realtà.

Perché quando si ignora un’intera nazione pensando di poterla nascondere e dimenticare dietro dei muri, quando si cancella la sua memoria attraverso la colonizzazione sistematica e la delegittimazione della loro storia nazionale, si crea il prossimo disastro. Si alimenta l’odio, si alimenta il fanatismo e la violenza come ultima forma di resistenza. Una forma di resistenza disperata e criminale. Il prossimo disastro sarà immenso, temo, non solo per gli israeliani e i palestinesi, ma anche per il Medio oriente e per l’Europa. Perché dico questo? Perché la categoria del «popolo fantasma » ha invaso le cancellerie occidentali, l’opinione pubblica europea, spostando il discorso politico e sociale verso una sorta di scontro finale. Non si parla più dei palestinesi, non si inquadrano gli ultimi avvenimenti nello sviluppo di un conflitto che dura da decenni; si parla solo di terrorismo, identificando coscientemente o inconsciamente la questione palestinese, o meglio la causa palestinese, con i meri termini del fenomeno terroristico.

Dalle nostre parti, alzare la voce contro Israele è ormai diventato pericoloso: potresti perdere il lavoro, essere definitivamente squalificato sul terreno dell’impegno politico, potresti essere arrestato durante una manifestazione per incitazione all’odio antisemita. Anche se sei ebreo, anche se la storia dei tuoi antenati è legata alla diaspora sefardita, come è il caso della mia famiglia. Insomma, è come se d’improvviso lo spirito critico e riflessivo fosse stato rimosso, forse nell’eccitazione delle avventure militari in Ucraina, nell’esaltazione autoreferenziale dell’unità dell’Occidente democratico contro le forze del Male, confondendo la propaganda con la storia, il terrorismo con la lotta per l’autodeterminazione, le cause con le conseguenza, il nero con il bianco, e i muscoli con lo spettro di una guerra senza frontiere.

Hamas ha commesso crimini di guerra, pagherà per questo, ma è molto poco credibile in questa storia vecchia di settantacinque anni, se si è onesti, puntare il dito contro chi ha commesso un crimine come se fosse l’unico a macchiarsi di misfatti. Il mio migliore amico a Tel Aviv dice: «Sedici anni di assedio a Gaza sono un crimine. Non lo razionalizzo né lo giustifico in alcun modo».

 

L’impunità di cui ha goduto Israele per decenni ha consegnato le speranze di giustizia e di dignità dei palestinesi a dei cattivi maestri, animati dalla follia del «non abbiamo più niente da perdere», perché questo è quello che pensano ormai i palestinesi. Distruggeranno Hamas, distruggerano Gaza, ma non per questo arriverà giustizia per i palestinesi, né pace, perché nel regime di impunità di cui Israele ha goduto, l’idea di uno stato coloniale protetto dall’Occidente in Medio oriente non verrà messa in discussione. Non ne siamo capaci, significherebbe ammettere che l’Europa, legittimando il Sionismo per le tragiche ragioni storiche che tutti conosciamo, sia alle origini della questione palestinese. Significherebbe dover rimettere profondamente in discussione la storiografia delle Crociate e delle altre guerre coloniali che seguirono nei secoli seguenti. Significherebbe ammettere che la vita di un arabo e di un bianco hanno lo stesso valore, lo stesso peso sulla bilancia della storia e nel profondo delle nostre culture. Significherebbe infine demistificare la nozione di antisemitismo, separando finalmente la critica o l’opposizione alle politiche di Israele dalle valutazioni legate ad identità razziali, religiose e culturali (anche gli arabi, d’altronde, sono semiti, e ce ne dimentichiamo sistematicamente).

Dagli accordi di Oslo, la colonizzazione delle terre palestinesi non si è mai fermata, persino il Consiglio di Sicurezza dell’ONU è giunto di recente all’impotente riconoscimento del fatto che le cose sono andate sempre peggio[1], e che anche in questi giorni in cui si bombarda Gaza, proseguono le sottrazioni delle terre dei palestinesi in Cisgiordania[2]. E la colonizzazione, negli ultimi mesi, ha raggiunto anche il cuore dell’identità palestinese: la sacra Moschea di Al-Aqsa, che è stata oggetto di numerose incursioni da parte di integralisti, coloni e membri della Knesset, anche sotto la protezione della polizia israeliana. L’impunità ha governato gli affari in Medio Oriente e l’eliminazione della nazione e della cultura palestinese è ora percepita come un obiettivo raggiungibile. E noi, non lo vediamo.

E cosa ascoltiamo invece? Una narrazione a senso unico: distruggere Hamas. E poi? Ci imbarcheremo in nuove guerre in nome della lotta al terrorismo, mettendo a ferro e fuoco Europa e Mediterraneo? La comunità internazionale ha già «distrutto» Hamas nel 2006, quando ha delegittimato la sua vittoria alle elezioni legislative palestinesi (all’epoca ero un osservatore elettorale internazionale). L’Hamas di oggi è anche figlio di quelle mosse, figlio della nostra stroncatura della nascente democrazia palestinese, figlio della volontà di addomesticamento della nazione palestinese affinché faccia tutto ciò che aggradi il suo potente vicino occupante.

Si può fare pace solo con i propri nemici, non con i propri compagni di ventura. Pochi sembrano capirlo. Crimini di guerra da una parte, crimini di guerra dall’altra, nessuna soluzione alla catastrofe palestinese. Questo renderà Israele più debole, diviso e instabile. Questo porterà sofferenza alle famiglie israeliane e palestinesi per altri decenni.

Sembra che il fanatismo e la cecità siano il nuovo ordine dominante da entrambe le parti, e il mondo lo segue, ignorando di diventare così parte del problema. La dichiarazione delle prime ore del ministro della Difesa israeliano ne è l’espressione: «Ho ordinato un assedio totale su Gaza. Stiamo combattendo contro degli animali dalle sembianze umane («human animals») e agiamo di conseguenza »[3]. Niente acqua, niente cibo, niente carburante, niente luce. Animali? Dal 1967 al 2023 (prima del 7 ottobre scorso), per ogni vittima israeliana del conflitto sono stati uccisi in media 8 palestinesi[4], e dal 2008 ad oggi la proporzione è stata ancora più squilibrata: 20 palestinesi per ogni israeliano[5].

Il dio della vendetta sta tornando per distruggere Sodoma e restaurare il suo regno? Non si è accorto che a Sodoma vivono più di due milioni di persone? Chissà, anche quel dio pare essere diventato cieco: non sa che fare con della gente fantasma.


[1] Cfr. risoluzioni del Consiglio di sicurezza ONU del 27 settembre scorso: « Settlement Expansion in Occupied Palestinian Territory Violates International Law, Must Cease, Many Delegates Tell Security Council ».

[2] « ‘Silent annexation’: Settlers dispossess West Bank Bedouins amid Israel war », aljazeera.com , 20 ottobre 2023.

[3] Fonte : Haaretz.

[4] Fonte : B’Tselem, Database on fatalities.

[5] Fonte : UN Office for the Coordination of Humanitarian Affairs in the occupied Palestinian territory.

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