Cosa può fare l’università per la pace? Può tornare ad essere se stessa. Quasi un secolo fa, Virginia Woolf constatava che l’università così com’era non poteva dare alcun contributo a “prevenire la guerra”, e ne immaginava una in cui si insegnasse “non l’arte di dominare sugli altri, non l’arte di governare, di uccidere, di accumulare terra e capitali… ma l’arte dei rapporti umani, l’arte di comprendere la vita e la mente degli altri… Lo scopo dovrebbe essere non di segregare e di specializzare, ma di integrare… non esisteranno le barriere di ricchezza e di etichetta, di esibizionismo e di competitività che rendono le vecchie e ricche università dei luoghi in cui non è bello vivere: città ostili e faticose, città dove ciò che non è chiuso a chiave è fissato con una catena; dove nessuno può passeggiare liberamente e parlare liberamente per timore di oltrepassare la riga di gesso, di scontentare qualche dignitario”. Una università che non voglia preparare alla guerra, ma alla pace, non deve dunque educare all’esercizio del potere; allo specialismo avulso da una visione e da una responsabilità politica; al rispetto proprietario dei confini disciplinari; alla sottomissione, alla competizione e al successo. Bensì: alla cooperazione; all’apertura mentale; alla comprensione delle diversità e all’accettazione dell’altro, anzi alla capacità di intendere le differenze come condizione essenziale per costruire una vera eguaglianza. Detto in poche parole, quelle di Kant, ad intendere la persona umana non come “un mezzo per raggiungere i fini degli altri, e nemmeno i suoi propri, ma come un fine in sé”. Non alla creazione di capitale umano: come invece anche il presidente Mattarella ha sostenuto nella sua lettera ufficiale ai rettori e alle comunità accademiche dello scorso marzo.
Per usare le parole di don Lorenzo Milani, l’università deve servire “non alla creazione di una classe dirigente, ma di una massa cosciente”: mentre i numeri ci ricordano che in Italia una università davvero di massa non è mai nata, e che gli ultimi anni segnano anzi un regresso verso una selezione sociale dell’accesso alla laurea. Conosciamo, del resto, tutto ciò che divide la nostra università da quella immaginata da Woolf. Una università ridisegnata sul modello aziendale, con: rettori pressoché onnipotenti; consigli d’amministrazione sovraordinati ai senati accademici; pervasivi interessi privati; sottofinanziamento pubblico; negazione del diritto allo studio; progressiva riduzione alla pura professionalizzazione; disciplinamento da parte di un sistema di valutazione che deprime il pensiero critico, e favorisce l’allineamento. Ma oggi le studentesse e gli studenti che insorgono per il popolo palestinese ci ricordano che cosa sia veramente l’università: non un luogo di perpetuazione del mondo com’è, ma un laboratorio di insorgenza critica che forgi strumenti per cambiarlo. Nelle loro parole, riascolto quelle di Martin Luther King: “la libertà accademica è una realtà oggi perché Socrate praticava la disobbedienza civile”. Del resto, non sono le stesse ragazze e gli stessi ragazzi che, quando erano ancora a scuola, hanno cominciato a ricordarci che potrebbero essere l’ultima generazione a causa del disastro climatico? “Fate chiasso”, ha detto loro papa Francesco: ebbene, lo hanno ascoltato. E oggi ci ricordano che l’università occidentale ha una missione urgente: decostruire, contestare, riscrivere, contaminare, rinegoziare proprio la cosiddetta identità occidentale, smontando ogni pretesa di superiorità, dominio, imperialismo morale o primato culturale.
Ma loro stessi hanno bisogno di un’università in cui si impari che i confini culturali non ci circondano, ma ci attraversano; che le identità nazionali sono invenzioni storiche, e non realtà naturali; che le parole si usano senza paura (argomentare intorno alla possibilità concreta che ciò accade a Gaza sia ‘genocidio’ non è una bestemmia), con libertà (senza rischiare di essere etichettati come ‘putiniani’ o ‘antisemiti’ da una nuova inquisizione del pensiero tanto feroce quanto ignorante), ma anche con responsabilità (etichettare Israele come ‘entità sionista’ significa volere la guerra, non la pace). Una università che non introietti la logica semplificatrice della guerra, con il criterio amico-nemico, e che sia invece capace di mettere sia il potere che i suoi stessi studenti insorti di fronte a un pensiero complesso. Per esempio, pensando che la pace non passa attraverso il genocidio dei palestinesi, e non passa attraverso la cancellazione di Israele. E che – tramontata forse la concreta possibilità di immaginare due popoli in due stati – la via d’uscita debba essere ancora più ambiziosa: comprendere che proprio i palestinesi rappresentano la possibilità di Israele di trasformarsi in uno stato per due popoli. E cioè plurale, non più etnocentrico e integralista; senza apartheid; laico: finalmente davvero democratico. Una università così scontenterebbe tutti: perché farebbe pensare.