GAZA - LA SOLUZIONE FINALE È IN DIRETTA

di Lavinia Marchetti - 19/05/2025
L’invocazione della “fine” non è un atto di pietà, ma di liberazione dal fastidio. È la complicità travestita da umanitarismo stanco
Ieri Israele ha inaugurato la fase più spaventosa di ciò che, secondo ogni parametro del diritto internazionale, può essere definito genocidio: l’invasione via terra dell’intera Striscia di Gaza.
Non si parla più di operazioni militari mirate, ma di una distruzione sistematica, finalizzata, ideologica.
Un massacro terminale.
Le testimonianze che arrivano, poche, sempre meno, perché i giornalisti sono stati fisicamente eliminati o tecnicamente silenziati, raccontano una ferocia che non conosce precedenti.
Colonne di carri armati avanzano sulle rovine delle zone già designate come “sicure”, radendole al suolo con colpi d’artiglieria nel mucchio.
L’aviazione colpisce senza tregua. Le bombe si susseguono come un metronomo dell’annientamento. Ogni notte una sinfonia mortuaria.
Secondo il Ministero della Sanità di Gaza, nelle ultime quarantotto ore almeno centocinquantatré persone sono state uccise e oltre quattrocentocinquanta ferite nei bombardamenti israeliani, con attacchi continui e concentrici su Rafah, Khan Younis e i corridoi dell’evacuazione umanitaria.
Questa intensificazione fa parte dell’operazione “Carri di Gedeone”, lanciata il diciassette maggio duemilaventicinque dalle forze israeliane.
Il nome richiama la figura biblica di Gedeone, giudice e condottiero che, secondo il Libro dei Giudici, guidò una piccola avanguardia alla vittoria contro i Madianiti.
L’operazione è presentata come una missione risolutiva per eliminare Hamas e liberare gli ostaggi, ma nella realtà significa la distruzione sistematica di oltre centocinquanta obiettivi in ventiquattro ore, tra cui quello che restava di ospedali, scuole e rifugi civili.
Questa non è una teoria del complotto. È una strategia dichiarata.
Il governo Netanyahu ha ribadito pubblicamente che l’obiettivo è “spazzare via Hamas” ma il linguaggio della realtà è meno astratto: si abbattono interi quartieri, si uccidono famiglie nelle case, si sterminano intere linee genealogiche.
Coloro che sopravvivranno verranno confinati in un fazzoletto di terra sull’estremo sud, ai margini con l’Egitto, dove Israele ha già iniziato a demolire ogni edificio residuo, rendendo quella porzione di mondo inadatta alla vita.
E non si fermeranno lì.
Secondo fonti diplomatiche e militari, tra cui il Financial Times, negli Stati Uniti si starebbe già lavorando a un piano per deportare un milione di palestinesi nella Libia “non Stato”: un territorio frammentato, gestito da milizie, dove oggi migliaia di persone migranti vengono torturate nei centri di detenzione finanziati dall’Unione Europea, Italia in primis.
Questo è il contesto: un popolo chiuso in una trappola, affamato, bombardato, sterminato e destinato, se sopravvive, all’esilio coatto.
E chi guarda, tace. Oppure, peggio, si commuove adesso.
Negli ultimi giorni anche testate storicamente complici hanno iniziato a pubblicare editoriali di finta indignazione: Corriere della Sera, Financial Times, perfino Le Monde.
Molti, leggendoli, hanno tirato un sospiro di sollievo: finalmente qualcosa si muove, finalmente un cambio di passo.
Illusione.
Al contrario: è proprio perché il peggio è già stato compiuto, è proprio perché sono certi che nessuno interverrà, che ora possono “condannare” senza rischi, indignarsi senza conseguenze, e costruirsi a futura memoria l’immagine di chi “non era d’accordo”.
Come ha scritto Hannah Arendt, «il male più radicale nasce là dove gli esseri umani diventano superflui».
Ed è ciò che è accaduto: le vite palestinesi sono diventate superflue, sacrificabili, cancellabili.
Ma attenzione: non solo per gli assassini. Anche per chi fingeva di non sapere.
Questi editoriali dell’ultima ora sono confessioni tardive, alibi preventivi, lacrime di coccodrillo versate mentre il sangue è ancora caldo.
Chi ha sostenuto per diciannove mesi una macchina bellica senza limiti, ora tenta di lavarsi la coscienza fingendosi “dalla parte giusta della Storia”.
È l’osceno paradosso dei nostri tempi: i complici si travestono da dissidenti.
Si costruiscono una memoria pulita nel momento esatto in cui la realtà tocca il punto più basso.
Chi non ha parlato prima, quando parlare significava rischio, ora grida solo per salvare la propria reputazione.
Questa non è l’inversione di tendenza. È la conferma del compimento.
Questo enunciato rovescia l’interpretazione ottimista delle recenti indignazioni pubbliche.
Il punto non è che il sistema stia correggendo se stesso, ma che ha ormai realizzato pienamente il proprio disegno distruttivo. Non siamo dinanzi a una sintesi dialettica, ma a una compiuta e inemendabile realizzazione dello spirito negativo del tempo.
La parola “compimento” richiama tanto la fine quanto la riuscita di un progetto. Il genocidio non è più una deriva, ma un esito. I genocidari lo sanno: ora tutto è permesso.
È una parafrasi lucida e tragica della frase di Dostoevskij secondo cui se Dio non esiste tutto è permesso. Qui Dio è sostituito dalla coscienza collettiva, dal diritto internazionale, dall’idea di umanità condivisa.
Il crollo di ogni vincolo simbolico rende lecita ogni atrocità. Si entra in quella che Giorgio Agamben definisce zona d’indifferenza, dove lo stato d’eccezione è divenuto norma e la nuda vita è materia amministrabile.
E l’unico pensiero che attraversa la mente degli “alleati” è uno, agghiacciante, inconfessabile: speriamo che finiscano presto. Qui la condanna non è rivolta solo agli esecutori, ma anche ai complici silenziosi, agli osservatori stanchi, alla civiltà occidentale che ha preferito la gestione del tempo al dissenso.
L’invocazione della “fine” non è un atto di pietà, ma di liberazione dal fastidio. È la complicità travestita da umanitarismo stanco.
E così, andiamo verso la Soluzione Finale. Il progetto (fin dall'inizio) non è solo stato avviato: è diventato tragicamente percorribile. E noi, mentre osserviamo in silenzio, mentre mangiamo, ridiamo, commentiamo i titoli dei giornali, non siamo più spettatori. Siamo il pubblico pagante, come i turisti che pagano per andare sulle terrazze di Tel Aviv a vedere la tonnara in diretta.”

Lavinia Marchetti

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