Può sembrare paradossale e perfino cinico affermarlo. Ma Israele, nonostante l’uccisione di circa 45 mila palestinesi,100 mila feriti, la distruzione quasi totale delle loro case a Gaza, l’abbattimento di pressoché tutte le strutture civili, delle infrastrutture, dei servizi che la rendevano abitabile, ha perso la guerra. Ha compiuto un massacro che ha pochi precedenti per ferocia e crudeltà nella storia recente del mondo, eppure non ha raggiunto ancora interamente gli scopi per i quali ha scatenato l’inferno in questo angolo del Medio Oriente. Hamas non è stato distrutto. Sono stati uccisi alcuni suoi importanti dirigenti, ma altri guerriglieri hanno preso il loro posto, nuovi combattenti più giovani sono entrati nelle loro schiere. Lo spettacolo cui abbiamo di recente assistito, per la consegna degli ostaggi israeliani alle loro famiglie, con i soldati dell’esercito palestinese in tute da combattimento, armati di mitra, con il volto coperto dai passamontagna, hanno offerto al mondo l’esibizione stupefacente di una forza militare ancora intatta. Una capacità di comando e di lotta che un anno e mezzo di bombardamenti a tappeto, l’impiego di armi e tecnologie di morte sofisticatissime, il supporto sistematico di soldi e bombe da parte degli USA, non sono riusciti a sconfiggere. Tornano in mente le parole che José Saramago scrisse nel 2009, dopo la prima Intifada, a proposito dell’«ormai leggendario coraggio del popolo palestinese, che ogni giorno aggiunge numeri all’interminabile numero dei suoi morti e ogni giorno li risuscita nella pronta risposta di quelli che sono ancora vivi».
Certamente Israele ha inferto colpi terribili, ma soprattutto ai gazawi. I guerriglieri di Hamas hanno subito perdite rilevanti, ma sono ancora attivi nei loro nascondigli, nel loro tunnel, nelle loro sconfinate retrovie. Essi godono di un bacino illimitato di reclutamento, che viene dalle giovani generazioni arabe allevate nell’odio dello Stato d’Israele: uno Stato genocida che ha mostrato e continua a mostrare, in maniera dispiegata, tutta la sua volontà di pulizia etnica nei confronti di un intero popolo, la violenza di un razzismo persecutorio e omicida nei confronti delle popolazioni e di tutta la civiltà araba. Ma se Israele sul piano militare ha ottenuto alcuni risultati parziali, su quello politico ha subito una disfatta d’incalcolabile portata. Questo stato di occupanti armati, di colonizzatori violenti delle terre altrui ha dovuto mostrare le vere, remote e presenti intenzionalità storiche delle classi dirigenti sioniste: realizzare il Grande Israele della profezia biblica, costruire un potente Stato in nome di Dio, sterminando e cacciando un altro popolo. Con la guerra scatenata dal Governo di Tel Aviv dopo il 7 ottobre, dopo un anno e mezzo di ferro e di fuoco contro la popolazione civile, perfino contro le ambulanze e le tende dei rifugiati, il disegno strategico delle classi dirigenti israeliane di realizzare “la soluzione finale” della questione palestinese appare in tutta la sua criminale evidenza.
Oggi appare chiaro che l’esercito di Israele ha bombardato le case, gli ospedali, le scuole, le università, le moschee, e quanto a Gaza si ergeva in posizione verticale, non per stanare i soldati di Hamas – come sosteneva Tel Aviv e ripeteva in coro servile la stampa dell’occidente – ma per sottrarre al popolo di Palestina ogni possibilità di sopravvivenza in quel che rimane delle loro terre. Questa evidenza agli occhi del mondo toglie per sempre a Israele l’alibi storico con cui per quasi 80 anni ha nascosto il suo vasto disegno colonizzatore: l’alibi della propria sicurezza e della lotta al terrorismo. Da oggi lo spettacolo delle rovine di Gaza, di centinaia di migliaia di famiglie in fuga, della persecuzione dei superstiti, della colonizzazione violenta della Cisgiordania, degli sconfinamenti in Libano e in Siria, illumina di una luce di verità incancellabile l’intera storia della lunga guerra di colonizzazione condotta da Israele per conseguire questo risultato. La storia del progetto di pulizia etnica raccontata da tanti storici israeliani, da Ilan Pappé a Benny Morris, oltre che da decine di altri studiosi di ogni nazionalità, diventa ora narrazione vivente, popolare e universale, consapevolezza testimoniale di tutti i popoli della terra.
Ma la presidenza Trump aggiunge un sinistro bagliore di disvelamento all’intero paesaggio della storia contemporanea recente. Essa toglie ogni maschera di ipocrisia alle reali intenzioni dell’amministrazione Biden nei confronti della Palestina, che erano quelle di assecondare il progetto di sterminio di Netanyahu. Perché gli USA non avevano alcun piano per Gaza se non il suo svuotamento tramite le uccisioni di massa dei civili, coronato dell’emigrazione finale nei Paesi arabi vicini dei profughi sopravvissuti. Lo provano le tonnellate di bombe inviate per oltre un anno a Israele e il sabotaggio di tutte le risoluzioni dell’ONU e del Tribunale Internazionale di Giustizia. Ma la brutalità del nuovo presidente ha un altro dirompente esito: essa mostra come forse mai era accaduto negli ultimi 80 anni, con il suo agire sfrontato e senza cautele diplomatiche, a quali violenti padroni hanno ubbidito per decenni i governanti europei, di fronte a quanti sfregi della legalità internazionale da parte degli USA costoro si sono genuflessi e hanno taciuto.
È tutta la politica estera americana del dopoguerra che viene implicitamente rivelata da Trump – quella che gli storici ci raccontano da decenni –, una trama ininterrotta di colpi di Stato e massacri, dal Brasile al Guatemala, dall’Iran all’Indonesia, dal Vietnam alla Cambogia, dal Laos al Cile, dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Libia alla Siria, sino all’ultimo tentativo sanguinoso nella guerra tra Ucraina e Russia. Mentre ora, quasi tutto il ceto politico europeo, tanti intellettuali sedicenti democratici, il giornalismo padronale, vengono smascherati nel loro servilismo suicida nei confronti dei governi USA. Trump ci mostra a quali violenti padroni essi hanno finora ubbidito e ai cui voleri di guerra non più imposti vorrebbero grottescamente continuare a ubbidire, essendo incapaci di qualunque scelta autonoma di politica internazionale che non sia comandata dai governi di oltre oceano.
É dunque tragicamente evidente che i governanti più inetti della storia contemporanea d’Europa, il giornalismo più servile e bugiardo che sia capitato alla nostra generazione, queste élites che hanno accompagnato con la complicità e il silenzio il massacro compiuto da Israele in questo angolo del Mediterraneo, non hanno nulla da dire, nulla da proporre per la Palestina. Essi lasceranno che si consumi qualunque soluzione finale per il suo popolo pur di non urtare i voleri del nuovo prepotente di Washington, tanto più che gli dovranno chiedere clemenza sulla politica economica e nella questione dei dazi. Una situazione che appare, dunque, per tanti versi disperata, ma che offre oggi, paradossalmente, ai tantissimi movimenti per la pace, un’occasione straordinaria di rendere efficace e vincente il proprio impegno. E non solo per prospettive che si aprono in Ucraina, ma anche per la Palestina. Per un anno e mezzo abbiamo assistito impotenti e disperati allo sterminio di un popolo chiuso in una prigione a cielo aperto. Abbiamo osservato con la morte nel cuore le immagini dei bambini col volto coperto di sangue, dei padri che portavano in braccio piccoli corpi coperti di polvere, delle madri vestite di nero accasciate sulle pietre delle proprie case. Ma ora, dopo tanti morti e feriti, dopo tante distruzioni, noi, come sempre disarmati, abbiamo la possibilità di aiutare il popolo palestinese, intenzionato a non abbandonare Gaza, a non lasciarsi deportare, a resistere. Su questa strenua, eroica resistenza si fonda la possibilità di sconfiggere il disegno genocida di Israele e di impedire la definitiva dispersione del popolo palestinese.
Oggi sono attive nel mondo centinaia e centinaia di ONG, di associazioni, movimenti, gruppi, varie formazioni di volontari. L‘élite più generosa di una intera generazione è impegnata a sostenere la causa di un popolo coraggioso e sfortunato. Ma oggi occorre cambiare passo. Sarebbe necessario fare pressione sui vari governi perché diano un loro contributo anche minimo nell’opera di ricostruzione a Gaza: invio di imprese, macchinari, operai. È necessario costruire una rete informativa di tutte le associazioni che raccolgono fondi in modo da avere un quadro meno caotico e più controllato degli aiuti. Così come sarebbe utile costituire un corpo di volontari che potrebbero contribuire in mille modi alla rinascita di Gaza. Ma già fin da ora occorre far giungere a quel popolo accampato fra le rovine dei propri abitati, il messaggio del nostro impegno, della vicinanza di una generosa comunità internazionale che sostiene la sua determinazione a restare, che la vuole aiutare a rinascere. I Palestinesi non si devono sentire soli, noi non siamo il Parlamento di Bruxelles, vergogna e disonore della nostra storia. Per questo dovremmo istituire almeno una unità virtuale, unificare sotto un’unica denominazione le molteplici e disperse iniziative esistenti o che stanno nascendo. Potremmo definire l’intero mondo del pacifismo e del volontariato l’Alleanza Internazionale per la Resistenza Palestinese. E sarebbe importante curare l’aspetto comunicativo e simbolico di questo messaggio unificante: creare bandiere, gadget con la sigla dell’Alleanza, inventarsi un logo, intestare le nostre chat, produrre adesivi da incollare sui muri e sui vetri delle auto. Questo impegno per Gaza potrebbe sollecitare una maggiore creatività nel linguaggio della comunicazione, troppo pigramente affidata ai messaggi in rete. Occorre tornare all’aria aperta, a occupare gli spazi urbani, diventa urgente incontrare le nuove generazioni degli studenti davanti alle loro scuole, e alle sedi universitarie, mostrare loro le possibilità di essere utili a un popolo oppresso, contro le manipolazioni ministeriali, le menzogne quotidiane delle nostre televisioni. Ma è necessario aprire banchetti nelle piazze delle nostre città, per distribuire materiale documentario sulla guerra se vogliamo informare i cittadini che l’Europa e il Governo italiano vogliono sottrarre le poche risorse del nostro bilancio alla sanità, alla scuola, alle necessità dei comuni, per investirli in armi. Lo stanno già facendo allo scopo di servire l’infedele alleato americano e di nascondere il fallimento dell’Unione Europea. Mentre stanno già cercando di persuaderci della necessità che i nostri figli e nipoti diventino soldati di trincea per le guerre prossime venture.
Da questo lavoro, utile a una delle grandi cause del nostro tempo, può nascere una nuova generazione di militanti e di dirigenti politici, destinati a sostituire gran parte della classe dirigente dell’Europa, dei modesti funzionari del capitale, delle piccole donne e dei piccoli uomini oggi palesemente incapaci di misurarsi con i grandi tornanti della storia.