Ho vissuto e commentato tutte le guerre che hanno punteggiato il disordine mondiale post-89 da una posizione di minoranza, e spesso di minoranza nella minoranza. Nel 1990 ero contro la Guerra del Golfo, voluta dagli Usa e autorizzata dall’Onu contro Saddam Hussein che si era annesso il Kuwait: l’annessione di Saddam era illegittima, ma la rilegittimazione della guerra come strumento di risoluzione di una controversia internazionale avrebbe aperto una nuova epoca belligerante dopo la pace armata della Guerra fredda, come infatti è puntualmente avvenuto. Nel 1998 ero contro “l’intervento umanitario” in Kosovo (così venne chiamata allora la guerra della Nato nella ex Jugoslavia, con una mistificazione linguistico-politica analoga a quella della “operazione speciale” di Putin in Ucraina): le ragioni dei kosovari andavano certamente sostenute, ma le bombe sopra Belgrado mi parevano il modo peggiore di farlo e le conseguenze le stiamo pagando ancora adesso, Putin essendosela, come si dice, legata al dito. Nel 2001 il mio cuore e la mia testa stavano interamente dalla parte dei newyorkesi colpiti dall’attentato alle Torri gemelle (ragion per cui, lo dico a chi oggi mi dà della putinista, all’epoca nella sinistra radicale ero bollata come filoamericana), ma la revanche bellicista decisa da George W.Bush e dai neocon mi pareva la meno adatta a contrastare una minaccia virale come il terrorismo suicida; lo scorso agosto, dopo 20 lunghi anni, abbiamo visto com’è andata a finire. A maggior ragione nel 2003 ero contro la guerra in Iraq, giustificata dagli Usa sulla base della madre di tutte le fake news, il supposto possesso di armi chimiche da parte di Saddam; anche in quel caso, era facile profezia che da quella guerra sarebbe derivato solo un incremento del disordine mondiale, segnatamente nel Medio Oriente, con costi altissimi segnatamente per l’Europa.
Mi fermo qui, tralasciando la Siria, la Libia e altre avventure militari. Aggiungo però due cose. La prima: in ciascuna di queste circostanze la mia postura spontanea è stata più quella della critica interna al fronte occidentale a cui appartengo che quella della condanna reiterata del nemico di turno. Condannare i dittatori o i fondamentalisti o gli autocrati per chi vive in democrazia è ovvio. Meno ovvio è vigilare ogni volta perché nelle guerre fatte in nome dei valori occidentali e della democrazia non siano proprio i valori occidentali, la democrazia e lo Stato di diritto a rimetterci le penne, come spesso invece accade e sta accadendo anche oggi: il problema delle guerre non è solo vincerle, è vincerle senza perdersi. Seconda cosa: in ciascuna di queste circostanze la prospettiva femminista mi ha messo spesso in attrito con lo stesso fronte pacifista, cui non ho risparmiato critiche per il suo linguaggio talvolta altrettanto fallico di quello interventista, per le assonanze patriarcali e misogine riscontrabili nell’uno come nell’altro, per la condivisione da parte di entrambi di una ferrea logica amico-nemico che non è la mia.
L’arruolamento delle opinioni
In ciascuna di queste circostanze, l’entrata in guerra, più o meno diretta, ha comportato l’immediata militarizzazione e polarizzazione del dibattito pubblico: o con me o contro di me, o con la democrazia o con il dittatore di turno, o con l’Occidente laico e pluralista o con i fondamentalisti. Ma mai come in questi due mesi di guerra in Ucraina l’arruolamento delle opinioni conformi e la scomunica di quelle difformi ha travalicato il limite della decenza, con una regressione galoppante rispetto a venti anni fa. Venti anni fa – lo testimonia il mio 2001. Un archivio, il libro in cui ho raccolto il mio lavoro sull’11 settembre e le war on terror – era legittimo, anzi dovuto, interrogarsi sugli errori della politica americana in Medio Oriente durante e dopo la Guerra fredda che spiegavano, senza giustificarla, l’insorgenza del terrorismo internazionale. Era legittimo, anzi dovuto, distinguere fra la Jihad e l’insieme del mondo islamico, così come fra la politica della Casa Bianca e del Pentagono e gli umori compositi della società americana, o fra i governi e le opinioni pubbliche europee. Era consentito indagare le segrete simmetrie fra i toni messianici della crociata contro l’Occidente in nome di Allah dei fondamentalisti islamici e quella in nome della democrazia dell’Occidente contro l’Islam. Era possibile contrastare la propaganda di guerra occidentale sulla guerra in Afghanistan come “guerra di liberazione delle donne dal burqa” spiegando che le donne non si liberano con la guerra fra maschi e che il patriarcato, a differenti gradi di oppressione femminile, è una struttura socio-simbolica planetaria dalla quale l’Occidente non è affatto immune. E da pacifisti si poteva, anzi si doveva, professarsi contro il terrorismo islamico e contro la risposta revanchista americana senza per questo essere tacciati di equidistanza.
Niente di paragonabile è possibile dire oggi in Italia. Da quando Putin ha invaso l’Ucraina la prospettiva pacifista è messa al bando, ogni giorno c’è una lista di proscrizione con i nomi e i cognomi dei non allineati. Appena cerchi di ragionare sulle origini vicine e lontane della guerra stai giustificando Putin, se non premetti a ogni riga che scrivi che c’è un aggressore e un aggredito sei una collaborazionista, se osi criticare Zelensky sei indifferente alle sofferenze degli ucraini, se dici che la resistenza ucraina è diversa da quella italiana il giorno dopo qualcuno chiede lo scioglimento dell’Anpi, se azzardi che le guerre difficilmente scoppiano fra buoni e cattivi ma più spesso fra cattivi e cattivissimi sei equidistante, se contesti l’escalation del conflitto perseguita allegramente da Putin, da Zelensky e dall’Occidente sei antiamericana e via così, e se fai notare che questo andazzo è segno evidente di un pessimo stato della nostra democrazia sei o una nostalgica dell’Urss o un’amante clandestina degli autocrati. Confesso che per settimane mi sono volutamente sottratta a questo tintinnare di sciabole testosteronico e isterico che lascio volentieri a chi ne gode. Più utile mi pare domandarsi a quali derive psicologiche, politiche e cognitive sia dovuto un tale incarognimento del dibattito pubblico e un tale imbarbarimento dell’arena mediatica.
La scia della pandemia
Tanto per cominciare dai fattori psicologici, la sequenza pandemia-guerra, solitamente evocata per ipotizzare una demenziale sovrapposizione fra no-vax e pacifisti, va considerata piuttosto per la scia di aggressività che la pandemia ha lasciato dietro di sé. Ferita a morte nella sua smania di onnipotenza da un microrganismo sconosciuto capace di hackerare il capitalismo globale, la politica dei grandi della terra si arma e satura con nuove morti la mancata elaborazione del lutto per le vittime della pandemia. Una guerra reale prende il posto della guerra metaforica al virus e il primato della distruttività torna saldamente nelle mani della specie umana; e forse sta qui la radice inconfessabile di tanto godimento per una retorica dell’escalation inconcepibile solo pochi anni fa. Su questa base di godimento inconscio c’è ampio spazio tanto per l’evocazione continua di un futuro apocalittico quanto per la convocazione ossessiva dei fantasmi del passato: col risultato che non si sa più se siamo nella prima, nella seconda o nella terza guerra mondiale, ed è più facile liquidare un interlocutore scomodo dandogli del nostalgico dello stalinismo che confrontarsi sui problemi effettivi del presente.
Nazionalismo e indignazione
Fra i quali spicca, a dispetto dei muri innalzati fra “noi” e gli “autocrati”, l’ideologia nazionalista che dal campo sovranista tracima in varie gradazioni fin dentro il campo democratico. È allo scontro fra due nazionalismi che stiamo assistendo nel teatro ucraino: da una parte il nazionalismo etnico di Putin, basato sulla comunità di destino della stirpe russa e sul tradizionalismo neoconservatore dei Dugin e dei Kirill, dall’altro il nazionalismo dei confini, patriottico ed eroico, di Zelensky. Ma nascono dalla stessa matrice nazionalista il richiamo perentorio alla compattezza e il tracciamento del nemico interno che impazzano sulla stampa italiana mainstream, dove fin dal primo giorno di guerra la preoccupazione principale è stata quella di individuare e stigmatizzare “il fronte interno” dei non allineati, e dove ogni giorno sventola la bandiera di una democrazia senza pluralismo e senza opposizione. A riprova che come in tutte le guerre gli indicatori più precisi delle poste in gioco vengono più da quello che segretamente accomuna che da quello che esplicitamente divide i campi contrapposti.
Si aggiunge a questo, l’ha notato un Habermas non casualmente passato sotto silenzio nel dibattito italiano, il dilagare dopo l’89 di una concezione etica della politica che sostituisce con l’indignazione la capacità di mediazione, sì che quello che importa è ribadire la condanna del nemico più che cercare una soluzione pacifica che renda possibile conviverci. Che è precisamente il dispositivo retorico con cui qualunque tentativo di ragionare sulle cause, le conseguenze e le soluzioni di questa guerra viene azzittito con la perentoria richiesta di ribadire fino all’estenuazione che c’è un aggressore e un aggredito, che l’aggressore è un criminale, che il problema è come annientarlo o dargli l’ergastolo e che chi ragiona altrimenti se ne fa complice.
La realtà fatta immagine
Infine ma non ultimo, ogni guerra è figlia del regime di verità e dell’ambiente cognitivo della sua epoca. Trent’anni fa, Jean Baudrillard commentava la Guerra del Golfo sostenendo che paradossalmente era come se non fosse mai avvenuta: entravamo nell’era digitale, e le immagini algide e smaterializzate dell’operazione Desert Storm, con le sue bombe “intelligenti” che illuminavano le notti del deserto iracheno inquadrate dalle telecamere fisse, suggerivano che la guerra potesse emanciparsi dalla materialità cruda dei corpi feriti, amputati, massacrati. La guerra c’era e non c’era, come i fantasmi: la sua spettralizzazione serviva a renderla accettabile in un Occidente che la stava rilegittimando come continuazione della politica con altri mezzi, e pazienza se le bombe intelligenti distruggevano persone e cose come quelle stupide: l’Iraq era lontano, le responsabilità dell’aggressore occidentale sfumavano in quella lontananza, i civili che ci rimettevano la pelle erano, in quella come nelle guerre d’inizio secolo, casualties, errori, effetti collaterali indesiderati. Oggi tutto funziona al contrario. L’Ucraina è vicina, il teatro della guerra è dentro l’Occidente, l’aggressore è dietro l’angolo e fino all’altro ieri ci facevamo affari ma viene orientalizzato assecondando l’immaginario russofobico della Guerra fredda, i civili ammazzati non sono più casualties, ma effetto di una volontà crudele, le telecamere digitali sono in mano a chiunque e tutto, ma proprio tutto, dev’essere visibile, dalle unghie laccate delle donne ammazzate a Bucha agli avanzi di cibo nelle cucine delle case bombardate di Mariupol: la pornografia dell’orrore, che nelle guerre del dopo 11 settembre attribuivamo ai video degli jihadisti sugli ostaggi sgozzati, adesso la maneggiamo noi. E la verità è affidata tutto e solo all’evidenza e all’immediatezza dell’immagine: quello che si vede è vero, quello che non si vede non esiste.
Questo regime della visibilità totale è indubitabilmente democratico, tanto più se confrontato al regime totalitario della menzogna sistematica e della negazione dell’evidenza in cui si barcamenano le tv di stato russe e la propaganda del Cremlino. Ma ha anch’esso i suoi effetti collaterali tutt’altro che trascurabili. Nel flusso ininterrotto del fermo-immagine sparisce il peso di quello che non si vede, il deposito della storia, l’analisi dei precedenti e degli effetti: chi va a ricercarli diventa non solo un dietrologo e un giustificazionista dell’aggressore, ma anche un negazionista della realtà, perché la realtà è solo quella certificata dalle immagini. L’informazione si adegua e si scinde: sul campo diventa racconto e testimonianza soggettiva affidata alla presa diretta emozionale, l’interpretazione è affidata solo in minima parte a competenze credibili, per il resto essendo appannaggio di una rosa di opinionisti convocati su qualsivoglia questione, dal Covid alla geopolitica, che saltellano dai giornali ai talk show senza soluzione di continuità, legittimati da un potere della firma che andrebbe usato con discrezione e viene invece brandito come una clava al servizio di un establishment ideologico e politico presidiato dalla concentrazione della proprietà delle testate. La “verità” di questa guerra è anche il precipitato di decenni di precarizzazione e gerarchizzazione della professione giornalistica. In cui i non garantiti vanno al fronte e i garantiti compilano pagelle di lealtà patriottica e liste di proscrizione.