Nel mondo che ama gli eroi Hossam è invisibile

di Matteo Nucci - ilmanifesto.it - 27/03/2025
Gaza senza volto L’Occidente, capace di fare di storie individuali un paradigma, sa anche quando coprirle con un velo: Hind Rajab, Hussam Abu Safiya, ora il giornalista Shabat. Vite che in un altro luogo avrebbero raccontato da sole l'eccidio

Durante l’eccidio che da diciotto mesi Israele compie a Gaza, al di là dei numeri mostruosi, non sono mancate storie di uomini e donne i cui volti sono perlopiù ignoti nel nostro Occidente, tanto propenso a «eroizzare» l’individuo.

Chi saprebbe dire qualcosa per esempio di Hind Rajab, la bambina di sei anni che, dalla sua auto zeppa di familiari uccisi, chiese aiuto e, mentre l’ambulanza arrivava, fu crivellata di colpi assieme ai paramedici in soccorso? Eppure la fotografia che della piccola ha circolato racconta un sorriso straziante e da sola potrebbe commuovere chiunque, anche chi non ne sapesse le vicende.

E chi saprebbe dire qualcosa, invece, del dottor Hussam Abu Safiya, pediatra, direttore del Kamal Adwan Hospital, rimasto fino all’ultimo a curare i suoi pazienti e infine arrestato, torturato e detenuto da tre mesi? E dire che c’è una fotografia che lo ritrae nel suo camice bianco, di spalle, solo e fiero, tra le macerie dell’ospedale, come se volesse cercare di dare ancora un senso al suo mestiere. Si tratta di un’immagine iconica, della stessa portata di quella famosa di Tiananmen e avrebbe campeggiato sulle copertine di tutti i giornali se non provenisse da Gaza.

SONO SOLO due esempi tra molti. L’Occidente, il nostro mondo, tanto capace di dare un senso paradigmatico a storie individuali, sa anche quando coprirle con un velo di oblio, queste storie. Non è difficile capirne il motivo. Siamo noi, tutti noi, con il nostro silenzio, a rendere possibile un massacro immondo, dopo il quale nulla sarà più lo stesso, a prescindere dal modo e dal tempo in cui finirà.

In questi giorni, però, due fatti decisivi rischiano di mettere in crisi il sistema di oblio a cui ci siamo consegnati. Innanzitutto il tentato linciaggio e l’arresto (estraendolo da un’ambulanza) di Hamdan Ballal, co-regista di No Other Land (acclamato film israelo-palestinese vincitore di un Oscar), ha mostrato la strada. Hamdan Ballal, infatti, è stato immediatamente rilasciato. Sappiamo che questo non sarebbe mai accaduto se il suo nome e il suo volto non fossero finiti su tutte le prime pagine dei giornali.

Quando è troppo è troppo. La vergogna, l’onta, il pubblico disprezzo sono pericoli da cui guardarsi. E il fermo senza alcun capo di accusa, la cosiddetta «detenzione amministrativa» di cui Israele fa uso indiscriminato, sarebbe durato chissà quanto anche per lui, come per infiniti casi di cui siamo o meno al corrente.

A conferma di quanto l’individuo e quello che rappresenta possano fare la differenza in un momento come questo e a conferma di quanto sia importante per gli aggressori consegnare all’oblio le vite (e in molti casi, purtroppo, le morti) di persone che con la loro storia racconterebbero, senza doverlo spiegare, l’orrore dell’eccidio infinito.

MA, PROPRIO mentre festeggiavamo un lieto fine, abbiamo dovuto assistere all’assassinio di un ragazzo che, per chi segue queste vicende, è diventato noto e rispettato. Il suo nome è Hossam Shabat. Ha vissuto ventitré anni. Ma negli ultimi diciotto mesi è diventato quello che era, realizzando la sua umanità. Giornalista per Al Jazeera da Gaza Nord, un sorriso pieno di vita in ogni circostanza non per evitare il dramma ma per guardare al futuro, Hossam Shabat è stato ucciso deliberatamente (l’assassinio confermato dall’esercito israeliano che lo riteneva legato a Hamas).

La sua colpa? Fare fino in fondo e senza risparmiarsi il mestiere a volte più bello, ma certo più difficile del mondo, perlomeno in circostanze come quelle in cui lo ha fatto Shabat. Il suo nome va a iscriversi nella lista dei 208 giornalisti uccisi a Gaza, un numero sconvolgente e unico.

Shabat, però, ha saputo anche fare delle proprie vicende un modello. Amatissimo per la sua disponibilità all’aiuto, e soprattutto per essere rimasto a Gaza Nord anche nelle condizioni più impossibili, ha lasciato un vero e proprio testamento spirituale, parole che sono state pubblicate subito dopo la sua morte e che chiunque, non solo chi fa il giornalista, dovrebbe imparare a memoria.

«Se state leggendo queste righe significa che sono stato ucciso dalle forze di occupazione israeliane. Quando tutto questo è iniziato avevo solo 21 anni e ero uno studente con i sogni di chiunque altro. Negli ultimi 18 mesi ho dedicato ogni momento della mia vita alla mia gente. Ho documentato gli orrori a Gaza Nord minuto dopo minuto, pur di mostrare al mondo la verità che si è cercato di seppellire. Ho dormito per terra, nelle scuole, in tenda, ovunque potessi. Ogni giorno è stata una battaglia per la sopravvivenza. Ho sofferto la fame per mesi, eppure non ho mai lasciato la mia gente. Ho compiuto il mio dovere di giornalista. Ho rischiato tutto pur di raccontare la verità e ora infine riposo, un riposo che non ho mai conosciuto nei passati 18 mesi. Ho fatto questo con fede nella causa palestinese. Credo che questa terra sia nostra e che il più grande onore della mia vita sia morire in sua difesa e al servizio della mia gente. Vi chiedo ora: non smettete di parlare di Gaza. Non lasciate che il mondo si volti dall’altra parte. Continuate a lottare, continuate a raccontare le nostre storie. Finché la Palestina sarà libera».

SONO PAROLE così semplici e vere, orgogliose e chiare, che nulla ora riesce a fermarle. Attraversano l’etere. Rimbalzano nella rete globale. «Volano», fino a commuovere e colpire.
E forse è arrivato il momento, per chi ha sempre creduto sinceramente nella grandi conquiste del nostro Occidente, di sottrarle all’oblio che tutto fagocita. Pur di dire cose semplici – da difendere davvero con i denti contro qualsiasi “nemico”.

Perché non si bombardano gli ospedali, non si ammazzano medici e infermieri, non si colpiscono civili e, men che meno, i bambini. A Gaza ne sono morti quasi mille che non avevano neppure compiuto un anno. Di loro nessuna storia individuale potrà mai raccontare nulla.

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