La Palestina – ovvero ciò che è rimasto della Palestina storica alla creazione dello Stato di Israele nel 1948 –, comprendente Cisgiordania, Gerusalemme est e Striscia di Gaza, è terra che Israele occupa militarmente dal 1967.
È bene ribadire da subito che il diritto internazionale ammette le occupazioni militari solo in forma temporalmente limitata, con precisi vincoli di tutela della popolazione sotto occupazione e, soprattutto, senza mai trasferire sovranità alla potenza occupante.
Lo Stato di Israele viola sistematicamente questi principi dal 1967, a mezzo di continui trasferimenti di civili e costruzione di colonie nella Palestina occupata. Negli ultimi decenni tali violazioni sono state condannate ripetutamente dalle principali istituzioni internazionali, da ultimo il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite.
Le organizzazioni umanitarie concordano che tale occupazione sia illegittima e illegale, poiché condotta tramite usi proibiti della forza armata e allo scopo di annettere territorio palestinese allo Stato di Israele, sfollando i palestinesi che vi abitano. A fronte di tale realtà, ampiamente documentata, è necessario che la politica si conformi ai precetti del diritto internazionale, sanzionando Israele e sostenendo i palestinesi nel processo di autodeterminazione loro assegnato non da questa o quella fazione politica, ma dai più fondamentali principi della comunità internazionale.
È con questa consapevolezza che due mesi fa ho assunto il ruolo di Relatrice speciale delle Nazioni unite sui diritti umani nel territorio palestinese occupato, conferitomi dal Consiglio Diritti Umani dell’Onu. Con l’ulteriore sfida e onore dell’essere la prima donna a ricoprire questo delicato incarico, ne ho assunto la responsabilità pienamente consapevole delle difficoltà che avrei incontrato.
La prima difficoltà è che negli ultimi trent’anni i diritti del popolo palestinese abbiano smesso di far notizia, sebbene la Palestina resti teatro di un acerrimo scontro tra giustizia e prevaricazione, diritto e abuso, legalità e, ahimè, realpolitik ispirata puramente da rapporti di forza. A due mesi dall’inizio del mandato, ho toccato con mano l’impossibilità di discutere di Palestina pur seguendo un approccio strettamente giuridico.
Dinanzi a chiunque opponga alle logiche dei rapporti di forza un’etica guidata dalla forza del diritto, cala una cortina di ostilità e spesso violenza verbale, in nome della difesa ideologica delle politiche dello Stato di Israele.
Valga come esempio la mia audizione del 6 luglio scorso presso la Commissione Affari Esteri della Camera dei Deputati, che mi aveva invitato a riferire sulla situazione oggetto del mio mandato. Dopo un mio intervento di cui aveva evidentemente ascoltato poco e capito meno, il presidente della Commissione, on. Piero Fassino, invece di moderare il dibattito al fine di acquisire elementi utili alle deliberazioni parlamentari, si è lanciato in un j’accuse nei miei confronti tanto inopportuno quanto ingiustificato.
L’accusa verteva sulla mia presunta mancanza di «terzietà», evidentemente per non aver equiparato, nel mio intervento sui continui abusi da parte delle forze israeliane nei confronti dei palestinesi, l’occupante e l’occupato, il colonizzatore e il colonizzato. Il rispetto di ogni critica è parte integrante della mia interpretazione del mandato conferitomi. Ho però il dovere primario, proprio sulla base di questo mandato, di denunciare le violazioni del diritto internazionale.
Pur essendomi limitata a questo doveroso compito nell’audizione, l’on. Fassino, evidentemente irritato dall’esercizio dei miei doveri istituzionali, è giunto ad attribuirmi frasi recanti forme di legittimazione della violenza che né io ho mai pronunciato, né alcun intervistatore ha mai trascritto. Altraeconomia lo ha prontamente dimostrato riportando le mie dichiarazioni originarie di condanna della spirale di violenza che l’occupazione perpetua, ad arte decontestualizzate dall’on. Fassino.
Nel criticare la mia eccessiva attenzione «al dato giuridico», l’on. Fassino ha altresì sminuito il ruolo centrale del diritto internazionale nella risoluzione dei conflitti, che pur costituisce parte integrante dell’ordinamento repubblicano.
L’idea che il diritto internazionale sia cogente per i nemici e facoltativo per gli alleati è una declinazione pericolosa del concetto di autonomia della politica, che da giurista non posso esimermi dal condannare.
Come ricorda Edward Said, una lotta per i diritti si vince «con le armi della critica e l’impegno della coscienza». Ed è questo che continuerò a promuovere nell’esecuzione del mio mandato, un dibattito sano, pluralista e informato sulla questione israelo-palestinese, partendo – qualsiasi siano le letture storiche e politiche del «conflitto» e delle sue radici – dalla forza regolatrice del diritto internazionale, unica bussola possibile nel buio fomentato da oltre un secolo di realpolitik.
Francesca Albanese - Relatrice speciale delle Nazioni unite sui diritti umani nel territorio palestinese occupato