POSSIAMO PARLARE DI CULTURA MENTRE IL GENOCIDIO CI GUARDA? POSSIAMO CONTINUARE A FAR FINTA DI NULLA?

di Lavinia Marchetti - FB - 20/07/2025
Per chi ha coscienza, il genocidio non è una notizia tra le altre. È il limite dell'umano. È il crinale della specie. Siamo ossessionati dal genocidio? La patologia sta dalla parte di chi non lo è.

Per chi non vuole vedere, sarà sempre troppo, troppo il dolore, troppo la parola “genocidio”, troppo la conta dei corpi. Ma per chi osserva, per chi non ha smarrito il nervo ottico della coscienza, non è mai abbastanza. Non è mai abbastanza gridare che a due ore d’aereo da noi, a tremila chilometri da Parigi, milleottocento da Roma, un popolo viene distrutto, fisicamente, linguisticamente, culturalmente, con la benedizione del silenzio europeo, e con il consenso anestetizzato delle élite intellettuali.

 Viviamo un’epoca che si ama definire “hiperconnessa”. Ma cosa accade quando la connessione non genera conoscenza, bensì complicità? Quando gli stream live non suscitano protesta, ma rimozione? Gaza è Auschwitz in diretta. Ma a differenza del 1944, oggi possiamo vedere. È questo che ci condanna. Non l’ignoranza, ma il privilegio della visione non negata. E intanto, a pochi chilometri da noi, si muovono pedine per preparare una possibile terza guerra mondiale: truppe europee pronte a scendere in campo contro la Russia, riarmo accelerato, spese militari alle stelle, mentre si tagliano servizi essenziali come la scuola e la sanità. La barbarie non è solo altrove: è già in marcia dentro di noi.

 E allora non è solo la politica a essere colpevole. È la cultura intera, che si è lavata le mani di fronte alla catastrofe. Dove sono i poeti, gli scrittori, gli artisti, i filosofi? Dove sono le loro parole che ardono, i manifesti, le veglie, le diserzioni dai festival, le lettere aperte, le interviste incendiarie? Non ci sono. Restano al margine, al sicuro, più preoccupati del numero di follower che della conta dei morti. Si chiama viltà. Ma si ammanta di “neutralità”. Chi parla oggi, chi insiste, chi “ossessivamente” chiama genocidio il genocidio, non è un fanatico. È un testimone. E la testimonianza è l’ultima forma di umanità possibile quando le istituzioni sono diventate meschine macchine necropolitiche, e i media agenzie di propaganda colonialista. Parlarne sempre, senza tregua, non è un’ossessione: è una resistenza. È un atto di sopravvivenza morale. E non basta!

 E tuttavia, ciò che mi inquieta di più è il disarmo culturale. In un momento che prelude, con la possibile discesa diretta della NATO in Ucraina, a una deflagrazione globale, molti intellettuali si rifugiano nell’estetica, nell’individualismo, nell’analisi sociologica disincarnata. Come se si potesse parlare di cultura senza che questa si faccia contro-potere, senza che torni a essere carne e voce, memoria e gesto. La storia non è comoda, ma è lì a gridarci in faccia. Chi erano i poeti del Novecento? Da Ungaretti a Hikmet, da Celan a Brecht, da Darwish a Pasolini, la poesia non è mai stata evasione, ma impegno. La letteratura non ha mai parlato soltanto d’amore o di sé, ma del mondo, del sangue, del massacro, dell’imperialismo. Durante la guerra civile spagnola, nelle guerre del Vietnam e della Corea, gli scrittori hanno scritto (si pensi a Hemingway, Norman Mailer, Günter Grass, fino a Elsa Morante contro la NATO). Hanno preso posizione. Non erano silenziosi complici. È allora legittima una cultura che oggi tace? È cultura o decorazione? "La zona d’interesse", il film di Jonathan Glazer, è forse la più potente riflessione estetica degli ultimi anni su questa cecità morale. Auschwitz è fuori campo, il crematorio è un rumore lontano, mentre la vita della famiglia Höss, fiori, picnic, infanzia, scorre placida. È questa la metafora della nostra Europa: un giardino curato che si stende accanto a un forno crematorio. Noi vediamo e sappiamo, ma è come se non vedessimo. E nonostante il sapere, scegliamo il rumore del frigorifero al suono delle bombe.

  Chi, oggi, pontifica sull’umano e accetta che migliaia di bambini vengano annientati nel nome della sicurezza israeliana, è un servo del potere. La cultura senza conflitto è intrattenimento. La cultura senza coraggio è pubblicità.

 La domanda, allora, è semplice e abissale: si può parlare di cultura senza usarla per fermare la barbarie? La mia risposta è no. Perché se non serve a questo, la cultura è solo un accessorio di lusso dell’Occidente decadente. E a quel punto, meglio il silenzio. Diventa orpello inutile di retorica.

 Per chi ha coscienza, il genocidio non è una notizia tra le altre. È il limite dell'umano. È il crinale della specie. Siamo ossessionati dal genocidio? La patologia sta dalla parte di chi non lo è.

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