Parafrasando un detto tratto dal mondo dello spettacolo possiamo purtroppo dire che “the war goes on”, la guerra continua con il suo carico crescente di morti, di distruzioni, di barbarie rendendo il pericolo di una guerra nucleare generalizzata sempre più prossimo. Le lancette del Doomsday Clock – l’orologio della apocalisse, l’orologio virtuale nato da una iniziativa degli scienziati di Chicago nel 1947 per misurare quanto manca alla fine del mondo – stanno per sovrapporsi, solo 90 sono i secondi che le separano. Ma non tutto continua nello stesso modo, anche se siamo ben lontani dal profilarsi di una via d’uscita dal conflitto russo-ucraino. Tra gli elementi di novità che, qualunque sia la valutazione che se ne vuole dare, costringono ad ulteriori riflessioni, se ne pongono in evidenza due, che più diversi tra loro non potrebbero essere, “riuniti” solo dalla sostanziale contemporaneità temporale con la quale si sono manifestati. La ribellione – per comodità chiamiamola così – di Evgenij Prigozhin contro i ministri della guerra di Putin, da un lato e, dall’altro, la missione del Cardinale Matteo Zuppi, su mandato di papa Francesco, sia in Ucraina che in Russia. Entrambi gli eventi sono sottoposti a diverse e contrastanti interpretazioni sia per quanto riguarda i loro reali intenti che i loro effettivi esiti, nonché sulle conseguenze che ne verranno.
La “marcia” su Mosca della Wagner
Dubito che possa esistere, allo stato dei fatti, un’interpretazione univoca di quali fossero le reali intenzioni di Prigozhin e sul perché le cose siano andate in un certo modo. Come sempre in questi casi fioriscono le letture più svariate, le dietrologie più fantasiose, le previsioni più azzardate.
Conviene evitare di addentrarsi in questa selva. Anche perché il quadro dei fatti di nostra conoscenza è tutt’altro che completo. Certamente però la vicenda non può essere derubricata a un semplice litigio tra uomini d’arme e tra uno di questi e il potere politico. Del resto, a ben vedere, non si è trattato di un’azione del tutto a sorpresa. Non mi riferisco qui al fatto se i servizi segreti delle varie potenze interessate direttamente o indirettamente a monitorare il conflitto fossero o no al corrente di quanto stava per accadere, o se invece questa non sia un’attribuzione di comprensione ex post su quanto si muoveva dietro le quinte. Più semplicemente va registrato come la “ribellione” sia avvenuta al culmine di un climax di accuse e insulti di Prigozhin nei confronti dei comandanti delle forze armate russe rispetto alla loro incapacità di condurre fin dall’inizio “l’Operazione militare speciale”. Le parole erano andate troppo in là, perché non ci si dovesse aspettare che fossero seguite da qualche fatto. Anche se quello che si è verificato è stato di dimensioni non percepibili in anticipo.
Meglio soffermarsi su alcuni dati che possono essere ritenuti più che plausibili, per non dire certi. Nel paese ove il potere politico si è costruito grazie alla gigantesca dismissione della proprietà pubblica dell’era sovietica, la cui privatizzazione massiccia ha favorito la crescita di un’oligarchia niente affatto coesa al suo interno, il tentativo di riportare sotto il diretto potere dell’autorità militare statale la più importante, numerosa e potente milizia privata ne ha provocato la ribellione. Può sembrare un paradosso, ma invece è un processo logico.
Il monopolio e la privatizzazione della forza
Il potere politico, in questo caso quello impersonato da Putin, può, anche per un lasso di tempo non breve, rinunciare al monopolio assoluto della forza, se questo gli conviene dal punto di vista di garantire una presenza militare in zone del mondo diventate economicamente e politicamente di interesse strategico in questa fase di ridefinizione dei processi globali, come è il caso dell’Africa, senza per ciò stesso muovere le forze armate “ufficiali”. Può, per fare questo, garantire a chi dirige questa milizia parte dello sfruttamento delle risorse, come “terre rare”, “oro” e quanto di meglio si può trovare in quegli sfortunati paesi. Può utilizzarla in luogo delle forze armate regolari, evitando così di mettere a rischio la vita dei “coscritti”, la cui morte numerosa avrebbe provocato una reazione o quanto meno una sofferenza difficilmente governabile nella popolazione. Può farlo, e lo ha fatto. Ma non all’infinito. Non di fronte all’emergere di difficoltà, per non dire peggio, di carattere strategico e tattico delle operazioni militari, di fronte al loro prolungarsi in un tempo indefinito e indefinibile, al trasformarsi di una operazione militare pensata in tempi relativamente brevi in una guerra d’attrito, ovvero in una situazione di stallo ove eserciti contrapposti si massacrano senza credibili possibilità di successo per entrambi. Tale era già il giudizio del Capo di stato maggiore Usa, Mark Milley che, dopo la riunione del gruppo di Ramstein nel giugno dell’anno scorso, dichiarava che: “L’avanzata russa in Ucraina si è trasformata in una ‘guerra di attrito’ quasi come la Prima guerra mondiale”1 .
Nello stesso tempo, queste ragioni che spiegano il decreto putiniano che voleva inscatolare la Wagner entro i confini dei comandi dello Stato maggiore dell’esercito, sono le stesse che stanno alla base del fatto che la Wagner non abbia incontrato resistenza alcuna nella sua marcia verso la capitale. Ma anche qui fino a un certo punto. Putin non poteva permettere, probabilmente non poteva reggere, uno scontro armato entro i confini russi mentre era in corso la guerra, sia che la famosa controffensiva ucraina sia realmente in atto o di lì a venire o si tratti di un bluff finalizzato alla richiesta all’Occidente di più armi ancora più letali, una volta definitivamente sparito il pudico quanto trasparente velo fra armi difensive e armi offensive.
Questa privatizzazione della forza, condotta su così grande scala, ha una sua storia peculiare che ci può illuminare sulla natura e sul modo di funzionamento del sistema postsovietico. Dopo il crollo dell’Urss, il potere centrale risultava a tal punto indebolito da dovere firmare, nella parte centrale degli anni novanta, ben 46 trattati bilaterali con le regioni russe, diversi gli uni dagli altri a seconda delle richieste dei governatori regionali. Se mi è concessa una battuta, verrebbe da dire una sorta di “autonomia differenziata” ante litteram in salsa russa. Non solo ma i parlamenti locali approvarono più di 60 “Costituzioni” producendo oltre 7mila leggi in contrasto con il quadro legislativo nazionale. Gli oligarchi, premiati dalla gigantesca privatizzazione spartitoria, si combattevano tra loro, non solo politicamente, ma anche per bande armate. In sostanza, come ha affermato Mancur Olson, la Russia era in una condizione pre-moderna, quasi feudale, dal punto di vista statuale, un terreno di lotta dei roving bandits, che si preoccupavano senza scrupoli ognuno del proprio bottino. Il ruolo di Putin fu dunque quello di stationary bandit, cioè di stabilizzatore della situazione.2
La ribellione di Prigozhin lascia Putin più forte o più debole?
Dopo la marcia indietro di Prigozhin vi è certamente da domandarsi chi ha vinto e chi ha perso tra i due contendenti, ovvero il capo delle Wagner o l’uomo del Cremlino. Risposta non semplice, malgrado più d’uno si sia lanciato verso l’una o l’altra tesi. In realtà non conosciamo quale sia stato il punto di compromesso raggiunto. Sempre che di compromesso si sia trattato, come è nell’ipotesi più probabile. Non conosciamo neppure la sorte e l’esatta collocazione di Prigozhin, quanto meno al momento in cui questa rivista viene chiusa. La prudenza nel giudizio è quindi d’obbligo.
Non solo, ma bisognerebbe distinguere il giudizio su ciò che i fatti hanno mostrato della realtà russa da quello che potrà succedere. Se mi sembra non confutabile che l’azione di Prigozhin abbia messo in luce un punto rilevante di fragilità intrinseca del sistema, sarebbe fuori di misura trarre per ciò stesso la conclusione su un indebolimento tout court di Putin quale esito della vicenda. La falla aperta da Prigozhin ha dimostrato che il sistema non è inossidabile, ma, nel momento che si è chiusa o rattoppata, può anche portare nell’immediato, per reazione, a rinserrare le fila attorno a Putin, piuttosto che aprire le possibilità, tanto attese in Occidente, di un suo rapido e rovinoso declino. Sono ben rari, dovremmo dire inesistenti, i casi nella storia in cui uno scontro interno a elite militari ha portato ad un cambiamento in senso democratico del paese in cui si è svolto, e quindi positivo per le popolazioni. Nello stesso tempo non sembra che le cose siano cambiate, in modo almeno per ora apprezzabile, sul fronte ucraino.
In conclusione anche questa nebulosa vicenda dimostra che, se si vuole fermare la guerra, se si vuole evitare che degeneri in un’esplosione mondiale, bisogna che il cessate il fuoco abbia luogo, con esso l’inizio di una trattativa con l’intento di giungere ad una conferenza internazionale che ponga le basi di una pace duratura. “Prima che la scintilla raggiunga la dinamite, la miccia accesa va tagliata” per usare la famosa metafora benjaminiana.3 Quindi al ricercare la strada della pace non c’è alternativa.4
La missione di pace voluta da Papa Francesco
Questo era ed è l’obiettivo della iniziativa diplomatica annunciata e messa in opera da Papa Francesco. Il Cardinale Zuppi non è stato accolto con gioia né a Kiev né a Mosca. Nel primo caso ha incontrato Zelensky, nel secondo Putin ha pensato bene di non farsi trovare. Eppure l’iniziativa papale non è destinata a fermarsi né a perdersi d’animo. Il Segretario di stato della Santa Sede, Pietro Parolin, ha dichiarato che potrà proseguire con altri incontri a livello internazionale, citando, non a caso, la Cina e gli Usa, cogliendo quindi il punto delle vere forze in gioco a livello mondiale.
Diversi hanno cercato di derubricare l’iniziativa ad una missione umanitaria, limitata alla questione, peraltro non irrelevante, dei prigionieri di guerra e ai bambini ucraini portati in Russia. Dimostrando così di capire davvero poco di come si possa aprire un dialogo fra belligeranti. Non sempre, per non dire quasi mai, si può cominciare dal porre i punti di un ipotetico trattato di pace. Ma ci si può avvicinare anche a piccoli passi, partendo proprio dai temi umanitari. Naturalmente se si ha la levatura morale per poterlo fare e se questa viene riconosciuta. Di fatto l’iniziativa papale è l’unico canale di dialogo che si è aperto tra i belligeranti con la mediazione di una terza forza. Matteo Zuppi aveva anticipato nella prefazione ad un libro uscito poco tempo fa, quale era il senso della missione che andava a intraprendere: “I pezzi della Terza guerra mondiale (per riprendere le parole di papa Francesco) rischiano di diventare in maniera evidente un unico grande conflitto. L’avvertimento del Papa di non farsi ingannare pensando che tanto è solo un pezzo isolato di guerra, quindi facilmente contenibile, a bassa intensità … non è stato preso sul serio. Ci confrontiamo con un pezzo che in maniera drammatica mostra la guerra mondiale …Ecco perché bisogna vincere la pace in Ucraina, perché dobbiamo credere che può essere anche il contrario, che cioè diventi il primo pezzo di una pace nei tanti pezzi di guerra. Perché la guerra è una pandemia. Non solo per i cristiani, perché è un loro fratello che è in pericolo. ‘Chiesa come ospedale da campo’, o meglio Chiesa che non se ne sta in disparte, ma è coinvolta pienamente nel grande ospedale da campo cui è ridotto il mondo. Con questo dobbiamo misurarci, ricordando che in realtà siamo tutti dei sopravvissuti della Seconda guerra mondiale”5
Il nesso fra la costruzione di una soluzione pacifica e necessariamente compromissoria del conflitto russo-ucraino e l’allontanamento del pericolo di una Terza guerra mondiale viene qui espresso in modo limpido ed immediato. Questa è la portata della missione di Francesco. I tentativi di depoliticizzare l’iniziativa vaticana si fondano in realtà su una cattiva interpretazione di ciò che è la politica, come sempre ridotta a politicismo, in questo caso in dimensione internazionale, e non come mezzo indispensabile per salvare l’umanità e il pianeta. Ed è invece evidente il filo che conduce dalla Laudato si’ alla missione di pace.
Il tentativo di svilire gli esiti della missione
Molti commenti hanno insistito sul fatto che in fondo il viaggio di Zuppi non ha ottenuto nulla di concreto, per cui sarebbe riducibile ad una pia e generosa intenzione. Ma, e questo è il caso, tentativi di questo tipo nascondono ben altro, ovvero l’avversità a una soluzione di pace, il perseguimento del mito della vittoria in una guerra che in realtà è a perdere per chiunque si illuda di poterla vincere. Lo dimostra il commento che compare sul Sole 24 Ore, emblematico di un atteggiamento che va ben al di là delle pagine dell’organo confindustriale. Nell’articolo, che analizza gli esiti del viaggio di Zuppi a Mosca, dopo avere sottolineato che il Cremlino ha espresso in un comunicato ufficiale “un alto apprezzamento per le iniziative del Papa” e dopo avere rilevato che il “prestigio” di Francesco non è affatto stimato da Zelensky, che “lo ha detto in tutte le salse”, si vuole mettere in guardia i lettori e le cancellerie del mondo intero da una ipotetica trappola che potrebbe scattare: “Ma c’è anche un potenziale rischio, segnalano gli osservatori di politica estera: se da parte di Mosca (anche attraverso la chiesa ortodossa del patriarca Kirill, longa manus del Cremlino) arrivasse una proposta, non molto distante dall’idea di una resa – per esempio cessazione delle ostilità con la fine di ogni pretesa sulla Crimea da parte di Kiev e una specie di congelamento del Donbass – questo potrebbe passare per un ‘piano di pace’, che naturalmente l’Ucraina respingerebbe, passando però come un’ostinazione guerrafondaia rispetto ad uno sforzo di Papa Francesco.”6
Da queste parole non è difficile concludere almeno tre cose. La prima è che si ritiene possibile che l’esito della missione papale possa travalicare i confini strettamente umanitari e irrompere sul terreno concreto della costruzione della pace. La seconda è che in fondo, anche a livello di mainstream, non si esclude affatto che una base per una trattativa di pace possa essere avanzata subito e persino da parte del paese aggressore. La terza è che nessuna delle prime due è cosa desiderabile e desiderata, anzi è temuta perché porrebbe fine alla guerra e agli sviluppi futuri che ad essa si vorrebbero attribuire rispetto a nuovi assetti del mondo.
La scelta della guerra e il vertice Nato di Vilnius
Non c’è da stupirsi. Già il 16 marzo 2022 il Financial Times dava notizia di un piano di pace in 15 punti che le parti avrebbero concordato nel corso di negoziati russo-ucraini tenutisi in Turchia. Sulla natura del documento scese un impenetrabile silenzio a livello internazionale, anche se alcune dichiarazioni di Zelensky e dei suoi consiglieri a quel tempo non parevano indisponibili ad una rinuncia all’ingresso nella Nato e all’accettazione di uno stato di neutralità dell’Ucraina.
Lo scorso 17 giugno, ricevendo una delegazione di leader africani guidata dal Sudafrica, Putin ha ribadito e mostrato l’esistenza di quel documento dal titolo “Trattato sulla neutralità permanente e sulle garanzie di sicurezza per l’Ucraina”, uno scritto articolato in 18 punti, molto preciso e dettagliato.7 In periodo di guerra, come si sa, si può dubitare della veridicità di tutto, ma rinunciare ad “andare a vedere” e proseguire imperterriti nell’intensificazione della guerra è una scelta sciagurata.
L’assoluta priorità data alla guerra era già chiara da parte degli Usa, pur se negli ultimi tempi qualche frenata alle mire vittoriose dell’Ucraina è giunta anche da parte loro. Anche perché l’andamento dei sondaggi tra i cittadini americani mostra una marcata tendenza ad esigere un “ruolo minore” degli Usa nel conflitto fra Russia e Ucraina. Un anno fa Jeffrey Sachs, l’economista e saggista statunitense della Columbia University, così si esprimeva: “Il grande errore degli americani è credere che la Nato sconfiggerà la Russia: tipica arroganza e miopia americana. E’ difficile capire cosa significhi ‘sconfiggere la Russia’, dato che Vladimir Putin controlla migliaia di testate nucleari…La mia ipotesi è che gli Stati Uniti siano più riluttanti della Russia a una pace negoziata. La Russia vuole un’Ucraina neutrale e l’accesso ai suoi mercati e alle sue risorse. Alcuni di questi obiettivi sono inaccettabili, ma sono comunque chiari in vista di un negoziato. Gli Stati Uniti e l’Ucraina invece non hanno mai dichiarato i loro termini per trattare. Gli Stati Uniti vogliono un’Ucraina nel campo euro-americano, in termini militari, politici ed economici. Qui si trova la ragione principale di questa guerra. Gli Stati Uniti non hanno mai mostrato un segno di compromesso, né prima che la guerra cominciasse né dopo”8
E le cose sono andate avanti in questa direzione. Gli inglesi dal canto loro hanno spinto a tutta forza perché la guerra continuasse e la Ue si è come al solito aggregata al punto di vista americano. Lo ha ribadito, al di là di ogni ragionevole dubbio, Mario Draghi - si può ben dire, per il ruolo chiave a suo tempo ricoperto, una delle persone più rappresentative dell’Unione europea - quando nel suo discorso al Mit di Boston dello scorso 8 giugno ha dichiarato che l’Ucraina deve vincere la guerra ed entrare nella Nato e che un “pareggio confuso” sarebbe letale per gli assetti europei e internazionali.9 Col che si è definitivamente messo alle spalle la cosiddetta “dottrina Eisenhower” del 1953, in base alla quale non ci sarebbe niente di peggio della vittoria totale in una guerra totale contro Mosca. Perché implica lo scontro atomico – ha giustamente commentato il giorno dopo Lucio Caracciolo10 – e quindi anche quello che spregiativamente viene chiamato “pareggio confuso”, ovvero l’esito necessariamente compromissorio di una trattativa di pace, è comunque meglio.
Ora siamo invece con il fiato sospeso in attesa dell’imminente vertice della Nato in programma a Vilnius il prossimo 11 e 12 luglio. Se nella risoluzione finale dovesse comparire la decisione di spalancare le porte all’Ucraina, oltre che della Ue anche della Nato, pur se solo come una dichiarazione di principio indeterminata nei suoi tempi di attuazione, per i vincoli statutari della Nato stessa, sarebbe il via libera con qualunque mezzo alla controffensiva ucraina nell’intento di vincere la guerra e un altro balzo verso l’irreparabile di uno scontro nucleare.
L’economia di guerra
Guerra chiama armi e armi chiamano guerra. E’ quanto sta accadendo sotto i nostri occhi da tempo. Le spese militari non hanno aspettato il conflitto russo ucraino per lievitare. Erano già prima in aumento ovunque. Ma certamente il conflitto in atto ha fatto fare un balzo in avanti alle politiche di riarmo da ogni punto di vista. La militarizzazione avviene non solo sul piano materiale, ma anche su quello dell’immaginario.
Sono spesso fatti marginali che, meglio di altri, danno il segno del cambiamento dei tempi. Come il seguente. Per tradizione consolidata il governo presidente di turno dell’Unione europea organizza un viaggio nel proprio paese cui invita le rappresentanze diplomatiche degli altri paesi membri. Così, all’inizio di giugno, le autorità svedesi, visto che la Svezia era presidente della Ue, hanno accompagnato una comitiva diplomatica a visitare l’isola di Gotland, sita a circa 80 chilometri dalla costa. Le bellezze della natura nordica e le notti bianche non c’entravano nulla con il vero motivo della scelta della meta. In realtà gli svedesi volevano mostrare gli effetti della spesa di non meno di 150 milioni di euro in infrastrutture e quanto serve per accogliere centinaia di soldati e quindi rendere ancora più efficiente l’assetto militare dell’isola, da sempre un punto chiave per il controllo del Mar Baltico, la cui importanza strategica è enormemente aumentata dopo l’inizio della
guerra ucraina. Un piccolo esempio, forse, ma emblematico della militarizzazione in atto in Europa, della sua orgogliosa ostentazione e della velocità con cui essa avviene. Secondo Jim Cloos, segretario generale della Trans European Policy Studies Association a Bruxelles, “la guerra in Ucraina ha provocato un’accelerazione della storia. Il solo fatto che oggi l’Unione europea finanzi l’acquisto di armi da inviare a Kiev rappresenta una svolta storica”.11 Infatti, e delle peggiori. Da diversi anni, su iniziativa dell’allora Alto rappresentante per la Politica estera e di Sicurezza Federica Mogherini, 25 paesi membri hanno moltiplicato i programmi di riarmo in comune. Da allora l’accelerazione è stata davvero considerevole. Nel 2022 gli investimenti in termini reali dei paesi della Ue nel settore della difesa hanno raggiunto la cifra di 345 miliardi di dollari, superando per la prima volta i livelli del 1989, alla fine della Guerra fredda, e sono incrementati del 30% nell’ultimo decennio.
Paradossalmente è il Fondo europeo per la Pace che si è attivato per rimborsare i paesi membri di una quota delle spese sostenute per l’invio di armi all’Ucraina. Come è noto, il Parlamento europeo ha approvato a larga maggioranza (446 sì, 67 no e 112 astensioni) il regolamento Asap (Act in Support of Ammunition Production) voluto dal commissario al mercato interno Thierry Breton, ovvero la possibilità di spendere i fondi per i Pnrr per il potenziamento degli armamenti. Una decisione che riporta alla mente il voto sui crediti di guerra nell’agosto del 1914 in Germania. Ma mentre quella decisione portò a rotture storiche e fondative per il movimento operaio internazionale, quest’ultima ha originato solo qualche scontro tra dichiarazioni.
Il rovesciamento della conversione ecologica dell’economia
Siamo all’opposto di una conversione ecologica dell’economia, siamo immersi in una economia di guerra. Questa è, per ora, la conseguenza più pesante del conflitto russo-ucraino. E costituisce la base materiale su cui si sviluppa un diffuso “sentire” di destra ed i conseguenti successi elettorali delle destre in Europa. Anche dove le sinistre erano riuscite ad approvare, stando al governo, misure dal chiaro contenuto socialmente positivo – come nel caso spagnolo – abbiamo più di una ragione per temere che il sommovimento di fondo che scuote questa nostra Europa e che spinge a destra, possa travolgere anche le migliori esperienze, peraltro fondate sulla crescita e sulla maturazione di movimenti reali e fortemente innovativi.
I riot in atto in Francia, mostrano quanto gli atti di rivolta siano l’unica risposta possibile, quando il sistema si chiude a riccio nella sua autoritaria impermeabilità, come è successo con la chiusura d’imperio della discussione della Assemblea nazionale sulle pensioni da parte del governo, tramite l’uso del famoso articolo 49.3 della Costituzione francese. Ma se tra questi giovani e la sinistra francese non si costruirà rapidamente un rapporto, vi è il pericolo che essi siano destinati ad essere vittima della più cruda repressione. A sua volta capace di alimentare le pulsioni di destra già così forti e ben rappresentate in quel paese. Questa volta qualche buon segnale si avverte da sinistra a differenza del silenzio assordante che accompagnò la rivolta nelle banlieues 2005.
Bisogna quindi porsi seriamente il problema di un’analisi delle cause e delle caratteristiche di questo vento di destra. Il richiamo a radici fasciste o addirittura naziste non è sufficiente. Anzi rischia di oscurare gli elementi di novità. È un vento di destra che non fa a pugni con la modernità, anzi vi ci si accomoda appieno con tutto il suo carico di brutalità.
Chico Mendes, il grande sindacalista assassinato dai rancheros sul finire degli anni ottanta, diceva che “L’ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio”. Quanta ragione aveva! Le giovani e i giovani di Fridays for future e di Ultima Generazione hanno introiettato questo insegnamento e lo traducono in pratica nei loro modi e nelle mutate condizioni. In un mondo in cui i margini del sistema per accogliere un certo ambientalismo di maniera, depotenziandolo, si sono molto ristretti, malgrado che l’aggettivo green sia praticamente appiccicato ad ogni cosa e ovunque. Le lotte contro i cambiamenti climatici, per l’energia pulita, per la difesa dell’ambiente, del suolo e delle acque acquistano immediatamente un carattere più contestativo verso l’ordine esistente e non solo nella foresta amazzonica. Per converso la tenace sopravvivenza degli strumenti del modello di sviluppo dominante, costituisce una base e un punto di riferimento per la destra moderna. Le pulsioni naturistiche di un Knut Hamsun e persino di un Julius Evola rappresentano un lontano ricordo di nicchia. Oggi le destre cavalcano con disinvoltura il negazionismo climatico.
Il nucleare non è temibile solo per il suo possibile uso bellico, che è stato con la guerra in corso ormai concettualmente sdoganato, o perché basterebbe colpire la centrale di Zaporizhzhia – rischio permanente – per provocare un disastro incalcolabile per estensione nel territorio e durata nei tempi, ma perché rispunta, con qualche aggiustamento e innovazione, il nucleare civile.
Dopo il disastro di Fukushima, l’Economist decretò che il sogno dell’energia nucleare era fallito. Non è stato così. Torna come incubo che si fa reale. La necessità di non dipendere dal gas russo, anziché spingere verso l’abbandono del fossile, ha accelerato la nuova industria del nucleare. Fondi pubblici e privati fanno a gara. L’agenzia internazionale dell’energia prevede che si passerà dai 30 miliardi di dollari l’anno investiti negli anni dieci di questo secolo a 69-80 miliardi entro il 2030. Non si torna solo a parlare dell’immarcescibile tormentone della fusione nucleare, ma anche di avanzamenti tecnologici applicabili agli attuali reattori. Gli impianti attivi nel mondo sono più di 400, altri sono in costruzione, di cui 24 in Cina. Con una novità rilevante. Se prima il nucleare era per forza di cose dominio del pubblico, ora l’investimento privato è ricercato e favorito. Particolarmente nel campo della fusione nucleare. Una sinergia tra pubblico e privato che non ha però come fine la ricerca del benessere comune, quanto quella dell’allocazione di capitali alla ricerca del massimo profitto.12 Qualcosa del genere, ancora più in grande per certi aspetti, sta avvenendo in un settore simbolo della modernità come la Space economy 13, ove la fantascienza di ieri si fa nuovo spazio di conquista per il capitalismo estrattivo e quello dell’intelligenza artificiale.
Il cieco atlantismo della Ue
Le già citate dichiarazioni di Draghi indicano come la Ue non intenda assumere altra posizione che non sia quella della continuazione della guerra. Questo elemento è destinato a dominare il dibattito politico e le scelte anche in vista delle prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo previste per il 6-9 giugno 2024. Probabilmente la discriminante sulla guerra sarà anche determinante per definire mutamenti o nascita di nuove aggregazioni nella campagna elettorale e nella composizione della prossima aula parlamentare. Intanto la discussione è incentrata sul Mes e sulla riforma del Patto di stabilità. Sul primo si attende l’Italia al varco. Come è noto il governo Meloni ha finora opposto resistenza alla firma del trattato. Ma non è una parola definitiva, quanto uno spostamento di data nella speranza di non creare ulteriori fibrillazioni nella maggioranza di governo e di mantenere un pacchetto di questioni su cui l’Italia intenderebbe trattare in un'unica soluzione, sperando così che cedendo da una parte possa rosicchiare qualche cosa dall’altra. Non pare, allo stato di cose, una tattica particolarmente illuminata. Non solo perché la situazione non è assimilabile ad una trattativa sindacale, ove tra l’altro i contraenti sono due, salvo la mediazione del governo quando c’è, ma perché il sì è solamente procrastinato, il che indebolisce fino ad annullarla la forza contrattuale del governo italiano. Inoltre gira e rigira il funzionamento del Mes è quello di una banca, definito e costruito al di fuori dei margini dei Trattati. Pretendere che funzioni in modo alternativo alla sua natura costitutiva mi pare pura illusione.
Altra cosa sarebbe se si fosse posto con forza il tema di una ridefinizione generale della governance europea, a partire dalla costruzione di un bilancio comune in grado di affrontare i grandi temi della transizione ecologica dell’economia. Ma naturalmente non ce lo si poteva aspettare da questo governo. Ma neppure dal Partito democratico. Visto che il suo documento più significativo sui temi europei è quello firmato da Enrico Letta più di un anno fa.14 In esso si propone una nuova Convenzione europea, a seguito della Conferenza sul futuro dell’Europa, conclusasi il 9 maggio 2022, cui erano affidate diverse speranze, tutte andate deluse. L’ex segretario del Pd enuncia sette questioni che dovrebbero delineare una Ue rinnovata. Ma nessuna di queste ha la forza di provocare un simile mutamento, a partire dalla prima, che condiziona poi le altre, nella quale si inneggia alla prontezza di risposta della Ue all’invasione russa dell’Ucraina e si magnifica l’efficacia delle sanzioni economiche adottate contro il Cremlino, che la storia dei successivi mesi hanno mostrato sostanzialmente inefficaci.
Non migliore appare il quadro della riforma del Patto di stabilità che ripropone lo scontro fra rigoristi e favorevoli a una certa flessibilità. Ritenuto del tutto insostenibile, come era ovvio fin dall’inizio, l’obbligo del rientro dal debito fino al parametro del 60% del Pil al ritmo di un ventesimo all’anno, nella Commissione preposta si è cercato di trovare una soluzione che non abbattesse il principio, ma la sua rigidità e la sua tempistica. Quindi si era giunti all’idea che ogni governo stabilisse un proprio piano di rientro concordato con la Commissione. A questo punto però un gruppo di 11 paesi, capitanati dalla Germania15, ha diffuso un documento nel quale in sostanza si vuole negare la flessibilità e introdurre “criteri quantitativi applicabili in tutti gli Stati membri”.16 In sostanza si ripropone, con qualche rilevante spostamento, la vecchia “querelle” con i paesi frugali attorno al debito, che nel frattempo è cresciuto. Si cercheranno ulteriori mediazioni, con ogni probabilità al ribasso, perché a nessuno conviene il ritorno alle vecchie rigidità del Patto di stabilità, che alla prova più importante, la lotta contro la pandemia, ha dimostrato di non stare in piedi. Ma anche da questo nuovo scontro si evince come al di fuori di una decisione politica, magari in una Conferenza internazionale sul tema, che porti all’abbattimento del debito, non vi è soluzione che permetta il risollevamento dalla crisi.
Il confronto fra Usa e Cina
Henry Kissinger ha compiuto cento anni lo scorso 27 maggio. Tutto si può dire di lui tranne che non abbia acquisito una certa esperienza sulla dinamica delle relazioni internazionali o, come si dice più semplicemente, su come va il mondo. Nella conversazione, pare durata diverse ore, tenutasi nel suo ufficio, al 33° piano di un edificio di Manhattan, l’anziano statista ha confidato all’Economist i suoi timori che il mondo si stia avvicinando ad una catastrofe, ovvero ad una terza guerra mondiale.17 Quello che più lo preoccupa non è tanto il prolungarsi del conflitto russo-ucraino, con tutto ciò che ne consegue, ma quello che si delinea sullo sfondo in modo sempre più esplicito, il possibile scontro fra Usa e Cina. Se entro cinque o dieci anni – dice l’anziano statista - fra cinesi e americani non si stabilizzerà una convivenza, la guerra diventerà lo sbocco più probabile. Kissinger coglie il punto: lo scontro bellico in Europa è un prodromo di una possibile deflagrazione ben più disastrosa. Quindi il primo andrebbe fermato non solo per il carico di morti, di distruzioni, di barbarie che già porta con sé, quanto per un futuro, ahimè prossimo, che ci sta preparando.
Su un piano non dissimile si muovono le considerazioni di Richard Haass e Charles A. Kupchan, due autorevolissimi esperti di relazioni internazionali statunitensi, che con i loro scritti mostrano come sia necessario per gli Usa una nuova strategia nei confronti dell’Ucraina18. Kupchan, in particolare, considera la nuova Guerra fredda già ampiamente in corso, ma peggiore di quella postbellica. La ragione è semplice. Da un lato la forza economica e ormai militare della Cina è incomparabilmente superiore a quella dell’Unione sovietica, dall’altro si è relativamente indebolita la potenza statunitense, destinata ad essere superata dalla Cina, almeno dal punto di vista economico, nella seconda metà del nostro secolo. Non solo è cambiato uno dei due attori della Guerra fredda, ma i rapporti tra i due contendenti appaiono oggi rovesciati rispetto al passato. “Al termine della guerra fredda – ci ricorda Kupchan – gli Stati Uniti e i loro partner detenevano quasi il 70 per cento della ricchezza globale. Le proiezioni indicano, invece, che nel 2060 le democrazie occidentali rappresenteranno meno del 40 per cento del Pil mondiale”.19 Da qui il professore della Georgetown University trae la conclusione che gli americani “dovranno fare un salto di immaginazione politica per potere coesistere con una grande potenza il cui sistema politico è per loro minaccioso”.
Non si tratta più di un surplus di immaginazione, ma di ben altro se si vuole evitare la deriva che può portare all’esito catastrofico indicato dallo stesso Kissinger. Come ha scritto il folto gruppo di economisti, con alla testa Emiliano Brancaccio e Robert Skidelsky, sul Financial Times del 17 febbraio scorso, ripreso anche da Le Monde e dal Sole 24 Ore20, non si possono comprendere le cause della guerra, e quindi tantomeno intraprendere le iniziative giuste per arrivare alla pace, se non si considerano le cause economiche di fondo che hanno mosso lo scontro bellico e che, se non risolte, provocheranno conflitti ancora più ampi e distruttivi come quello tra Usa e Cina. Come ha giustamente detto lo stesso Brancaccio in una intervista successiva: “Se non si apre una trattativa sugli elementi economici che sono sullo sfondo di queste tensioni militari, la via per una concreta pacificazione resterò chiusa.”21
Solo che il percorso non è breve, perché bisogna contemporaneamente sbloccare le chiusure protezioniste messe in atto dagli Usa e fare abbandonare alla Cina la logica del libero scambio. In sostanza bisognerebbe che paesi debitori, l’Occidente, e creditori, l’Oriente, convergessero su una nuova iniziativa di politica economica internazionale, quale quella cui pensava Keynes nel secondo dopoguerra e che non riuscì a realizzare per l’opposizione degli americani. Ovvero la costruzione di “un sistema di regolazione politica delle relazioni economiche internazionali – dice Brancaccio – basato sul controllo dei movimenti internazionali di capitale e su forme di governo degli scambi concordate politicamente tra i Paesi”. Qualcosa si muove in questo senso. Si guardi alla ripresa sulla scena mondiale dei Paesi non allineati, creditori netti verso l’estero, che non a caso non si lasciano attirare nella crociata atlantica e vogliono affermare un loro protagonismo in un mondo multipolare.
Vaste programme si dirà. È vero, ma con meno difficilmente si riuscirà a fare vincere nel mondo la pace.