Mai come in questi ultimi mesi ho sentito acuta la tentazione di una fuga nella vita privata, e nello studio: la tentazione del silenzio. Perché di fronte al dilagare sanguinoso della guerra in nome dei “valori dell’Occidente”, di fronte al fascismo di nuovo trionfante, di fronte a un senso comune che pare aver irrimediabilmente divorziato dal buon senso, si ha l’impressione che davvero tutto, e anche e soprattutto la parola, sia vano. Ma è una tentazione alla quale bisogna resistere. Pensando a chi, prima di noi, è passato, anche personalmente, attraverso ben altre prove. E pensando a chi, dopo di noi, ha il diritto di ascoltare parole di verità, e di vita. In questo senso, il passaggio simbolico tra un anno che si chiude e uno che si apre appare fecondo di significati, e di impegni: è il momento in cui riannodare il filo che lega passato e futuro. Un filo di consapevolezza e di lettura del mondo. Un esercizio di discernimento, che possa aiutarci a prendere coscienza intera dell’“inferno dei viventi” che ci si spalanca davanti, e quindi a «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio» (così, notoriamente, il Marco Polo delle Città invisibili di Italo Calvino).
Nella sua Lettera ai giudici (che è un giudizio sulla guerra fondato sulla Costituzione, e sul Vangelo), don Lorenzo Milani scrive che «la scuola siede tra il passato e il futuro, e deve averli presenti entrambi». In queste ore, tutti noi sediamo tra passato e futuro, tra un anno finito e uno da iniziare: come Giano, dio delle soglie, abbiamo un volto rivolto al passato e uno al futuro, e riusciamo per qualche tempo a vederli entrambi. Questa è la scuola che dobbiamo frequentare: la scuola di un passato che ci aiuti a costruire un futuro diverso.
Così, ho ripreso in mano un libro che da troppo tempo non rileggevo, e che è stato pubblicato quando avevo quindici anni, la stessa età che ha oggi mio figlio minore: I sommersi e i salvati, di Primo Levi (1986). In questo cannocchiale prospettico sento un uomo della generazione dei miei nonni che parla a me, per essere inteso dai miei figli. Un uomo che parla a fatica, sapendo di essere poco ascoltato e temendo di non essere inteso: «L’esperienza di cui siamo portatori noi superstiti dei Lager nazisti è estranea alle nuove generazioni dell’Occidente, e sempre più estranea si va facendo a mano a mano che passano gli anni. […] Si affaccia all’età adulta una generazione scettica, priva non di ideali ma di certezze, anzi, diffidente delle grandi verità rivelate; disposta invece ad accettare le verità piccole, mutevoli di mese in mese sull’onda convulsa delle mode culturali, pilotate o selvagge». Levi non era pessimista, era realista: l’arrivo al potere della mia generazione, dei nati tra la metà degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Ottanta, ha significato il definitivo distacco dall’esperienza e dall’eredità morale della generazione della guerra e dei lager. Con noi – lo dico con vergogna, e con dolore – sono tornati il fascismo e la guerra. E ora ci interroghiamo con angoscia sul futuro che prepariamo ai nostri figli.
Rileggere Levi oggi significa ritrovare argomenti, forza e lucidità per ricominciare a leggere in pubblico i segni di questi nostri tempi, per denunciare pubblicamente un futuro nerissimo prima che possa essere troppo tardi per fermarlo. Quando oggi qualcuno tenta di dire, nel discorso pubblico, che il fascismo può tornare a governare l’Europa, che la guerra può tornare a straziare le nostre città e i nostri corpi; quando qualcuno prova a indicare i sintomi premonitori del male che torna, la reazione prevalente è di screditarlo come una cassandra (dimenticando che Cassandra diceva il vero). Si risponde che il passato è incommensurabile al presente; che la democrazia è solida; che parlare di fascismo non crea consenso, o simpatia; che abbiamo a che fare con buffoni, non con boia; che la guerra qui è impensabile; che l’atomica mai sarà usata… e così via.
Ecco, rileggiamo allora Levi: «Dobbiamo essere ascoltati: al di sopra delle nostre esperienze individuali, siamo stati collettivamente testimoni di un evento fondamentale ed inaspettato, fondamentale appunto perché inaspettato, non previsto da nessuno. È avvenuto contro ogni previsione; è avvenuto in Europa; incredibilmente, e avvenuto che un intero popolo civile, appena uscito dalla fervida fioritura culturale di Weimar, seguisse un istrione la cui figura oggi muove al riso; eppure Adolf Hitler è stato obbedito ed osannato fino alla catastrofe. E avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire. Può accadere, e dappertutto». Queste parole del 1986, non vi sembrano oggi più sinistre e minacciose? In un mondo che ha conosciuto Trump alla Casa Bianca e Putin al Cremlino, che vede Israele sull’orlo di commettere un genocidio, che vede l’Italia in mano a un partito di matrice fascista, che vede l’Europa dominata dalla xenofobia e da destre estreme, queste parole di quarant’anni fa non vi paiono ancora più terribilmente profetiche? «Pochi paesi – continuava Levi – possono essere garantiti immuni da una futura marea di violenza, generata da intolleranza, da libidine di potere, da ragioni economiche, da fanatismo religioso o politico, da attriti razziali. Occorre quindi affinare i nostri sensi, diffidare dai profeti, dagli incantatori, da quelli che dicono e scrivono “belle parole” non sostenute da buone ragioni». L’argomento, tanto speso anche nei media italiani, che qualcuno avrà pur votato i nuovi fascisti giunti al governo nei vari paesi, il nostro compreso, non è certo un’attenuante, semmai un’aggravante: «Sia ben chiaro – è ancora Levi – che responsabili, in grado maggiore o minore, erano tutti, ma dev’essere altrettanto chiaro che dietro la loro responsabilità sta quella della grande maggioranza dei tedeschi, che hanno accettato all’inizio, per pigrizia mentale, per calcolo miope, per stupidità, per orgoglio nazionale, le ‘belle parole’ del caporale Hitler, lo hanno seguito finché la fortuna e la mancanza di scrupoli lo hanno favorito, sono stati travolti dalla sua rovina». Polonia, Ungheria, Brasile, Argentina non devono forse insegnarci qualcosa? E gli stessi Stati Uniti d’America non sono un monito terribilmente allarmante su quanto veloce potrebbe essere lo scivolamento in uno scenario distopico?
Nel punto di congiunzione tra passato e presente, è esattamente qua che dobbiamo guardare: e un segnale strettamente – molto più strettamente di quanto non si pensi – legato al ritorno dei fascismi è l’onda nera del terribile amore per la guerra che ha contagiato anche i commentatori più ‘moderati’ dei paesi occidentali, il nostro per primo: «la guerra mondiale voluta dai nazisti e dai giapponesi è stata una guerra suicida: tutte le guerre dovrebbero essere temute come tali», ammoniva Levi. Oggi terribilmente inascoltato.
Ma – si dice, e lo si dice anche nel mondo più tiepidamente antifascista, o meglio a-fascista –, si sbaglierebbe a temere un ritorno del fascismo: “cosa pensate, che le camicie nere tornino a sfilare sulla via dell’Impero”? In fondo – si aggiunge – Meloni, Lollobrigida, La Russa sono più grotteschi e ridicoli, che pericolosi. Forse rivedere il Grande dittatore di Chaplin gioverebbe a costoro: non erano forse ridicoli e grotteschi anche i capi di un secolo fa? E poi, insegna Levi, «bisogna guardarsi dall’errore che consiste nel giudicare epoche e luoghi lontani col metro che prevale nel qui e nell’oggi: errore tanto più difficile da evitare quanto più è grande la distanza nello spazio e nel tempo. […] Molti europei di allora, e non solo europei, e non solo di allora, si comportarono e si comportano […] negando l’esistenza delle cose che non dovrebbero esistere. Secondo il senso comune, che Manzoni accortamente distingueva dal ‘buon senso’, l’uomo minacciato provvede, resiste o fugge; ma molte minacce di allora, che oggi ci sembrano evidenti, a quel tempo erano velate dall’incredulità voluta, dalla rimozione, dalle verità consolatorie generosamente scambiate ed autocatalitiche. Qui sorge la domanda d’obbligo: una controdomanda. Quanto sicuri viviamo noi, uomini della fine del secolo e del millennio? e, più in particolare, noi europei?». Per provare rispondere a questa domanda dobbiamo leggere le parole e le decisioni di quelli che oggi governano, e capire dove intendono andare. Mi è stata annunciata, ma non mi è ancora dato di leggerla, una querela del ministro Lollobrigida per un articolo in cui ho scritto che chi parla di “sostituzione etnica” usa le parole e i pensieri di Adolf Hitler e di Benito Mussolini: se sarò chiamato a risponderne in tribunale, sarà una buona occasione per fare in pubblico quell’esercizio di discernimento dei tempi che Primo Levi, col suo stile asciutto e reciso, ci supplica di non smettere di fare.
Il Governo Meloni ha presentato una riforma che di fatto distrugge la Costituzione antifascista del 1948 ed è funzionale al comando di uno solo: davvero non corriamo pericoli? Lo stesso Governo sta costruendo un lager per migranti in Albania, un’idea distopica e apparentemente folle: che però rischia di diventare reale. Dobbiamo irriderla, o cogliere il terribile segnale di pericolo che essa contiene? Ha scritto Primo Levi (stavolta in Se questo è un uomo, 1947): «A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno inconsapevolmente, che “ogni straniero è nemico”. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora al temine della catena, sta il Lager. Esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano. La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo». Non è forse chiaro che i segni premonitori di un ritorno del morbo ci sono tutti? Non è evidente che la distruzione della dignità dello straniero, del migrante, oltre ad essere mostruosa in sé, annuncia che la stessa cosa verrà presto fatta a tutte e a tutti coloro che si sentono al sicuro? In I sommersi e i salvati Levi ricorda: «Non che della strage mancassero i sintomi premonitori: fin dai suoi primi libri e discorsi, Hitler aveva parlato chiaro, gli ebrei (non solo quelli tedeschi) erano i parassiti dell’umanità, e dovevano essere eliminati come si eliminano gli insetti nocivi. Ma, appunto, le deduzioni inquietanti hanno vita difficile: fino all’estremo, fino alle incursioni dei dervisci nazisti (e fascisti) di casa in casa, si trovò modo di disconoscere i segnali, di ignorare il pericolo, di confezionare verità di comodo».
Ecco, sull’orlo di questo anno terribile che si chiude, mentre se ne apre un altro che si annuncia non meno tremendo, penso che almeno questo dobbiamo impararlo: non dobbiamo distogliere lo sguardo dalla realtà. «Al futuro siamo ciechi, non meno dei nostri padri», constatava lucido Levi: che forse anche per questo decise di farla finita poco dopo averlo scritto. Provare ad ascoltarlo, provare a non ignorare sintomi e segnali di pericolo è l’unico modo di onorare insieme il sacrificio dei nostri padri e di amare davvero i nostri figli. Potremmo non avere molto tempo, per farlo.