Non è scontato che la flat tax, la tassa unica al 15% per ricchi e poveri, vedrà la luce in questa legislatura. Ringalluzzito dal 34%, Salvini l’ha rimessa al centro dell’agenda del governo, ma che si tratti soltanto di un amo elettorale è ipotesi tutt’altro che peregrina.
Il voto anticipato non è più un tabù, pesano sulle scelte del governo (e del governo che verrà) la congiuntura economica sfavorevole e lo stato dei conti pubblici, sui quali, com’è noto, è puntata l’attenzione di Bruxelles – più vicina la richiesta di una procedura d’infrazione per eccesso di debito – e, soprattutto, dei mercati finanziari (lo spread è tornato a surriscaldarsi).
Intanto, è opportuno chiedersi, in linea di principio, se una simile misura sarebbe rispondente ai bisogni reali del Paese e dei ceti popolari, la stragrande maggioranza della popolazione, quelli che in questi anni hanno sopportato tutto il costo della crisi (e in tanta parte hanno votato per la Lega il 26 maggio).
In Europa, l’Italia è ai primi posti in quanto a disuguaglianze sociali e povertà. Condividiamo il podio con la Romania. Numeri allarmanti, figli della crisi prolungata e della sua insana gestione imperniata su tagli draconiani al welfare state e su politiche di svalutazione del lavoro: il 5% più ricco della popolazione possiede patrimoni e risorse finanziarie pari a quelle possedute dal 90% più povero, cinque milioni sono le persone in condizione di grave deprivazione materiale (10 milioni considerando anche i «poveri relativi», 17 milioni a rischio esclusione sociale). Siamo qui: chi non lavora è povero, chi lavora è povero lo stesso.
Non c’è bisogno della laurea in economia per rendersi conto che a fronte di una simile, e drammatica, situazione l’unica azione riparatrice, riequilibratrice, sarebbe quella di drenare risorse dall’alto verso il basso, mediate una maggiore progressività dell’imposizione fiscale. Anche con l’introduzione di una tassa patrimoniale sulle grandi ricchezze.
D’altro canto, è universalmente riconosciuto che proprio la graduale «erosione della progressività fiscale» sia alla base dell’esplosione delle disuguaglianze nei paesi occidentali e che lo stesso effetto abbiano avuto in questi anni le varie sperimentazioni di tasse più o meno «piatte» in alcuni paesi dell’ex blocco sovietico, a cominciare dalla stessa Russia. Il modello che piace a Salvini e a Berlusconi, l’esempio tangibile delle «magnifiche sorti e progressive» dell’uguale tassazione per chi ha tantissimo e chi non ha (quasi) niente.
In Russia, dal 2001 è in vigore un regime fiscale per le persone fisiche basato su un’unica aliquota al 13% (24% per le imprese), tra le più basse al mondo. Un Paese dove il 52% delle famiglie riesce a malapena a sfamarsi e a vestirsi e il 3% più ricco della popolazione possiede l’89% delle risorse finanziarie (depositi bancari, obbligazioni, azioni), con una crescita media annua piuttosto modesta (poco sopra l’1% nel 2017 e nel 2018, dopo la dura recessione del biennio precedente). Miracolo della flat tax. L’abisso verso cui vorrebbero condurci i reaganiani con trent’anni di ritardo di casa nostra.
Torniamo in Italia. Le recenti stime dell’Istat sulla crescita (+0,1% nel primo trimestre, -0,1% rispetto al primo trimestre del 2018) e l’inflazione (a maggio +0,1% su base mensile e 0,9% su base annua) dicono una cosa molto semplice: quella italiana è una crisi di domanda. Pesano disoccupazione e sottoccupazione, bassi salari, la forbice tra nord e sud che si è ulteriormente allargata in questi anni. Un classico scenario keynesiano.
Se ne esce con politiche fiscali maggiormente espansive che, nelle condizioni generali date, non possono che essere finanziate attraverso un travaso di risorse da chi ha di più, molto di più, a chi ha di meno e molto di meno. Ridurre le disuguaglianze per rilanciare l’economia, facendo bene anche ai conti pubblici, insomma. Esattamente il contrario di ciò che vorrebbe propinarci Salvini con la complicità dei 5 Stelle.