George Floyd non è stato ucciso, ma è morto perché aveva assunto sostanze tossiche e aveva problemi cardiaci. Questo è quello che ha provato a dirci l’autopsia del medico legale del dipartimento di Minneapolis. Secondo il dipartimento, Floyd dunque se l’è cercata, è stato sprovveduto, incosciente, era alterato e questo non fa bene al cuore. Per questo è morto. Non per un ginocchio che un poliziotto gli ha tenuto schiacciato sul collo per molti minuti. Nove lunghi minuti nei quali il respiro cominciava pian piano a mancare. La seconda autopsia ha confermato che la morte è giunta per un arresto cardiaco legato allo schiacciamento di collo e schiena. Ma per giorni qualcuno ha provato a dirci che Floyd si è praticamente suicidato. Così come tanti altri uomini dalla pelle nera finiti tra le mani della polizia americana. Una polizia nella quale trovano spazio anche suprematisti bianchi e razzisti che, nell’attuale rappresentazione del potere statunitense, trovano adesso una legittimazione, quel senso di impunità necessario per compiere i propri massacri.
Prima di Floyd, tanti altri afroamericani hanno subito le violenze dei bianchi in divisa. Violenze che quasi sempre sono rimaste impunite, perché fanno parte di un modello di esercizio del potere che è accettato, riconosciuto. Al punto che è possibile consumare l’orrore davanti a una videocamera, con le mani in tasca e lo sguardo fermo. Un dettaglio atroce se si pensa a quante altre persone potrebbero esser state vittime di metodi brutali senza che ne abbiamo mai conosciuto il nome o la vicenda. Semplicemente perché non sono finite dentro un video e sugli schermi della rete o delle tv di tutto il mondo. Quanti George Floyd sono rimasti senza nome? Quanti di loro scorrono nel sangue di una ingiustizia che oggi è divenuta rabbia?
Questo non è più solo un caso di omicidio brutale, è diventato altro, è diventato rivolta contro un potere che nega le proprie responsabilità e contro un presidente che ha fatto sfoggio di razzismo e arroganza. Nelle scelte come nel linguaggio. La rivolta è esplosa con violenza, proprio come a Los Angeles nel 1992, dopo il pestaggio di Rodney King. Adesso, quella parte di America che riesce a credere che Floyd sia morto per il suo presunto stile di vita, si indigna per le proteste, per gli incendi, per i raid. Come se quella rabbia non avesse una causa, un origine, un retroterra di ingiustizie, esclusioni, discriminazioni. Non tutta l’America, ma certamente quella dei muri, dei tweet razzisti, l’America di Trump, di un presidente rozzo e compromesso, violento e volgare, che sventola la Bibbia per eccitare i suprematisti e gli integralisti bianchi e dichiara guerra al suo popolo invocando l’esercito.
Quell’America oggi sembra svegliarsi ancora senza la capacità di guardarsi davvero dentro, senza la consapevolezza di essere un Paese nel quale le contraddizioni sono esplosive. Quell’America sembra essere più preoccupata per le proteste che per la violenza sistemica che le ha generate. Ha ragione l’esponente democratica al Congresso, Alexandria Ocasio-Cortez: “Se pretendi che finiscano i disordini, ma non credi che l’assistenza sanitaria sia un diritto umano, se hai paura di dire che le vite dei neri contano e hai paura di denunciare la brutalità della polizia, allora non stai davvero chiedendo che cessino i disordini”. Ha ragione, perché la rabbia di chi protesta è figlia di una società in cui il potere poggia il suo ginocchio quotidiano su milioni di esclusi, esclusi non solo dai confini fiabeschi e ingannevoli del “sogno americano”, ma dai diritti, dai servizi più primari, che dovrebbero spettare a tutti in una democrazia che qualcuno ha auto celebrato come modello esportabile.
Ma non è solo l’America, non è una questione puramente geografica. La violenza del potere, le ingiustizie schiacciano il collo di tantissimi esclusi, di sfruttati, di esseri umani discriminati per la loro provenienza, il colore della pelle, la loro povertà. Gli Stati Uniti sono certamente il simbolo di un potere cinico e crudele, ma non sono l’unico. Sarebbe comodo pensarlo, ma sarebbe disonesto. Così come sarebbe disonesto disconoscere quelle parti della società americana che protestano e che da tempo combattono contro le logiche discriminatorie e la violazione dei diritti, diritti che hanno dietro una storia di movimenti importanti, di conquiste complesse, di uomini e donne che hanno segnato la storia dell’umanità. Ci sono luoghi nel mondo che, dal punto di vista della consapevolezza e della lotta contro il potere e il razzismo, sono ancora più indietro.
Ecco perché l’indignazione da lontano ha senso solo se diventa esercizio quotidiano anche nei propri dintorni, nei propri territori. Altrimenti non serve a nulla. Non serve la rabbia per quelle immagini, per quell’uomo ucciso due volte, dal poliziotto e dall’autopsia, non servono le lacrime, gli hashtag. Nulla. Anzi, impedirebbero di donare a George Floyd l’ascolto a quel suo disperato appello. Respiro, ossia risveglio, lotta, giustizia. Per tutti i neri, per gli esclusi, per chi è considerato ancora straniero anche quando è cittadino. Non solo in America, ma ovunque. Perché ci sono tanti George Floyd anche qui, accanto a noi, con un ginocchio piantato sul collo a stringere le loro vene, a bloccare l’ossigeno.
Per spostare quel ginocchio, allora, bisogna essere qui, non lontano da qui, non rinchiusi in un indignazione virtuale per qualcosa che non appartiene alla nostra esperienza quotidiana. Per cambiare il mondo, bisogna metterci il corpo, le mani. E non pensare che l’orrore è lontano da noi. Ce lo abbiamo davanti, in forme diverse, e dobbiamo combatterlo. Dobbiamo spostare quel ginocchio. George Floyd è stato ucciso. Altri potrebbero ancora essere salvati. Bisogna metterci le gambe, le mani, mettersi in marcia. Negli USA, le marce di Selma segnarono una svolta. Resero visibili gli invisibili. Furono drammatiche ma cambiarono la storia. Che oggi sembra voler tornare indietro. Non solo in America.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org