Abbiamo accumulato un patrimonio di idee, abbiamo richiamato la politica su temi che riguardano la vita reale delle persone, abbiamo smosso le acque stantie. Vogliamo ora rassegnarci e tornare a dormire in attesa di venir sopraffatti dai mostri generati dal sonno della ragione?
Non abbiamo convinto la maggioranza degli aventi diritto al voto. Siamo rimasti una minoranza, forse una minoranza attiva, ma pur sempre una ridotta minoranza sociale. Qualcuno si vorrà consolare pensando che, di questi tempi, l’astensione è la regola e, dunque, in fondo non è andata poi così male. In molti lo faranno. Io credo che dovremmo provare ad essere più consapevoli e, dunque, più ambiziosi. Più consapevoli delle reali difficoltà del momento, della forza di chi governa legittimamente il paese anche in ragione del disinteresse della maggioranza del corpo elettorale che non va a votare, che non protesta di fronte alla svolta securitaria, che non reagisce dinanzi al flagello della guerra e all’orrore dello sterminio. La «distrazione delle masse» in fondo è un classico dei regimi autoritari che si legittimano più sulla retorica che non sul consenso attivo e ragionato. Una tale consapevolezza indica anche e chiaramente qual è la via da percorrere senza possibili scorciatoie, tatticismi o alchimie elettorali da parte di chi pensa non ci si possa arrendere al flusso del tempo. Strada difficile e in salita, ma senza alternative: è necessario riuscire a convincere la maggioranza del popolo distratto delle nostre buone ragioni. Scuotere le coscienze, creare una comunità politica combattiva e determinata a far valere un proprio progetto di società, fondato sui valori di dignità della persona, ben diverso – opposto – rispetto a quello incentrato sulle ragioni della politica degli ultimi governi.
Questa è ora la posta in gioco. I quesiti referendari, in fondo, erano un modo per richiamare l’attenzione sul primato dei diritti dei lavoratori o dei migranti a fronte di politiche protese da tempo alla difesa di altri valori, quelli della flessibilità del lavoro e della esclusione dei residenti stranieri. Chi ha promosso il referendum ha pensato fosse giunto il tempo di una svolta culturale – antropologica mi verrebbe da dire – prima ancora che propriamente politica. Si tratta ora, in un contesto mutato, di proseguire il cammino, non di arretrare.
Diventa necessario approfondire il discorso per far percepire a chi non vuole intendere i profondi guasti delle proposte di una politica, sin qui maggioritaria, che ci ha portato a ribaltare il quadro dei valori costituzionali. Bisogna riuscire a contraddire con maggiore capacità e vigore le pratiche di governo che non si occupano più di garantire le libertà ma solo di assicurare l’ordine, non più preoccupate di perseguire l’eguaglianza tra i diversi ma solo di tutelare il privilegio e accentuare le diseguaglianze, per nulla attente ai doveri di solidarietà ma dirette esclusivamente a fomentare la paura dell’altro e preservare l’egoismo proprietario. Contrastare questa deriva è possibile, ma non basta il lamento di un giorno, c’è bisogno di una visione politica all’altezza dei problemi prospettati.
Un inizio di reazione c’è stato, le piazze sono tornate a riempirsi, ma non si sono ancora trasformate in un fronte comune di opposizione che si propone, nel rispetto delle differenze di ognuno, di unirsi in nome del superiore interesse, quello legato alla salvaguardia dei diritti costituzionali. È questo il tempo di definire un programma di governo alternativo. Una prospettiva che non va delegata in via esclusiva ai partiti, semmai essi devono essere incalzati, affinché loro tramite possano i cittadini tornare a «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Rompere le gabbie, riunire i diversi, chiedere rigore nella salvaguardia dei principi e flessibilità nelle formule organizzative. Non sono le sigle a fare la differenza, ma i contenuti a permettere l’unità delle forze che si riconoscono in un possibile cambiamento di indirizzo politico.
Certo dovremmo essere più radicali di quanto non siamo sin qui stati. Non per ragioni tattiche (per favorire questa o quella fazione contrapposta del sistema politico attuale), ma per la semplice constatazione che oggi la posta in gioco è la più alta: è la democrazia costituzionale. Siamo nel pieno di una trasformazione di regime. Non possiamo più permetterci troppi compromessi, la strategia del male minore ci ha portato a perdere tutto il bene possibile. Ora dovremmo proseguire nella lunga marcia iniziata prima con l’autonomia differenziata e poi con un referendum che pure abbiamo perduto, ma che può essere servito ad indicare la strada. Non ci rimane che rialzarci e camminare.
Anche perché non abbiamo molto tempo per lamentarci ed indugiare. Il prossimo passo verso il peggio è già stato annunciato riguarda la riforma della magistratura, il successivo rappresenterà poi il colpo definitivo: l’elezione del Capo e l’asservimento del parlamento ad esso. Non saranno passaggi indolori e lasceranno un segno profondo nel tempo. Cominciamo allora noi a parlare un altro linguaggio e a convincere la maggior parte delle persone dei rischi che corriamo e della possibilità di un diverso destino. Non illudiamoci di poter aspettare ancora le mosse degli altri, magari confidando che la prossima volta il referendum costituzionale sarà senza quorum. Senza popolo è la democrazia che perde.