Lo confesso: sono reo di lesa maestà. Abituato a leggere – da storico dell’arte – ogni dettaglio degli autoritratti del potere, mi ha colpito l’insistenza con cui le grandi palme (superilluminate) dei giardini del Quirinale finivano nelle immagini dell’ultimo discorso del capo dello Stato. E ho scherzosamente scritto su Twitter: “La prevalenza della palma nell’iconografia presidenziale. Il ritorno del rimosso: la repubblica delle banane che siamo…”.
Il senso mi pareva chiaro: quel paesaggio caraibico faceva venire in mente una repubblica delle banane, quelle che – come dice Wikipedia – sono governate “da un’oligarchia ricca e corrotta” (cosa ci ricorda?).
Apriti cielo, il capo della comunicazione del Quirinale si è scomodato a blastarmi: “Il professore, anzi il magnifico rettore, si intende sicuramente di arte ma poco di botanica. Il frutto della palma è il dattero, l’albero che produce le banane è il banano…”, aprendo così la strada alla gogna dei giornaloni, genuflessi coi turiboli.
Naturalmente il punto non era la botanica, ma la politica. Avrei potuto anche scrivere che quel paesaggio esotico così insolitamente in evidenza faceva venire in mente un celebre aforisma – altre volte riferito a Napoli, e, insomma, all’Italia – per cui “Roma è l’unica città mediorientale senza un quartiere europeo”. Per suggerire che al fiume di retorica dolciastra e autocelebrativa del discorso presidenziale corrisponde una realtà ben diversa: succede nelle finte democrazie, dove la propaganda prende il posto della verità.
Come accade nel passaggio dedicato alle istituzioni della Repubblica, in cui Mattarella ha ringraziato “innanzitutto il Parlamento, che esprime la sovranità popolare. Nello stesso modo rivolgo un pensiero riconoscente ai presidenti del Consiglio e ai governi che si sono succeduti in questi anni. La governabilità che le istituzioni hanno contribuito a realizzare ha permesso al Paese, soprattutto in alcuni passaggi particolarmente difficili e impegnativi, di evitare pericolosi salti nel buio”.
Il Parlamento della Repubblica non è forse mai stato umiliato come da questo governo (35 voti di fiducia in 11 mesi): che è nato per volere di Mattarella, attraverso eventi non del tutto limpidi sotto il profilo della sostanza democratica. Lo ha ben compreso quella metà abbondante degli italiani che ha smesso di andare a votare, prendendo atto della totale inutilità di quello che appare ormai come un rito di una religione che non c’è più. Ma su questo nemmeno una parola. E la scelta del termine “governabilità” è essa stessa una spia assai eloquente. Come ha scritto Gustavo Zagrebelsky: “Tra le tante insidie linguistiche che fanno presa nel nostro tempo c’è la ‘governabilità’, una parola venuta dal tempo dei discorsi sulla ‘grande riforma’ costituzionale che hanno preso campo alla fine degli anni Settanta e, da allora, ci accompagnano tutti i giorni. Cerchiamo di rimettere le cose a posto, a incominciare dal vocabolario. (…) Sono i governandi, coloro che possono essere più o meno ‘governabili’ o ‘ingovernabili’, a seconda che siano più o meno docili o indocili nei confronti di chi li governa”. Insomma, la visione di un popolo docile: senza conflitto sociale, senza politica. Cioè senza vera democrazia.
Per non parlare del passaggio in cui Mattarella riconosce che “le dinamiche spontanee dei mercati talvolta producono squilibri o addirittura ingiustizie che vanno corrette anche al fine di un maggiore e migliore sviluppo economico”. Sorvoliamo sull’uso grottesco del “talvolta”, in un Paese letteralmente sfigurato dalle diseguaglianze: ma davvero la bussola non è la giustizia sociale e il “pieno sviluppo della persona umana” (art. 3 Cost.), ma lo sviluppo economico? Quale Costituzione ha difeso Mattarella in questi sette anni?
Ma tranquilli: le palme fanno i datteri, non le banane.