C’è qualcosa di biblico, apocalittico, spaventoso, tragico negli esodi di migliaia di persone in tutto il mondo. Un fenomeno che non riguarda più solo il Mediterraneo ormai e davanti al quale non si può più restare indifferenti. Quando oltre 7mila persone si mettono in cammino tutte insieme, scappando dal proprio paese, verso una destinazione ignota, come sta accadendo adesso dall’Honduras verso il Messico, bisogna almeno rifletterci su e farsi qualche domanda. L’Honduras è stato definito il paese più violento al mondo e al momento completamente in ginocchio, col suo 68% di poveri.
Quando ero studentessa di Storia Medioevale e studiavo le grandi migrazioni dei popoli barbarici verso e dentro i confini dell’Impero romano, le visioni che si formavano nella mia mente erano statiche, fredde, asettiche, come delle illustrazioni. Solo ora che vedo davanti ai miei occhi queste terribili immagini di migliaia di esseri umani in fuga, stremati, con i figli in braccio, le poche cose in zaini strapieni, e sento il mio cuore spezzarsi per la pietà e il dolore, comprendo davvero il senso e la portata di quelle antiche migrazioni. Allora mi chiedevo cosa spingesse quelle popolazioni a spostarsi a piedi anche per migliaia di chilometri e immaginavo pestilenze, fame, disastri naturali, guerre devastanti e il desiderio di migliorare le proprie vite in un paese nuovo, in quel caso il grande e potente Impero romano, che sembrava essere quello delle meraviglie, ma – ora lo sappiamo bene – lo era solo nel loro immaginario.
La mia supposizione era corretta, perché anche oggi le motivazioni per andarsene dalla propria terra sono più o meno le stesse e non cambiano, in Africa come in America latina, ieri come oggi: cattivi governanti, collusi con la criminalità organizzata, violenze e guerre d’ogni tipo, insicurezza del futuro, mancanza di opportunità, penuria o assenza di generi di prima necessità, sfruttamento selvaggio di tutte le risorse da parte di minoranze spietate e armate, etc. E tutte queste persone disperate cercano di raggiungere i paesi in cui pensano esista un benessere diffuso e non ci sia povertà e disperazione: l’Europa e gli USA.
E noi fortunati mortali, che viviamo nel paese di Bengodi, che facciamo? Cerchiamo in qualche modo di aiutarli? Ma certamente no! Che affondino e crepino su quei rottami di bagnarole : noi non li faremo nemmeno sbarcare. Li guarderemo dibattersi e annegare fra le onde o morire di sete e di fame su quei gommoni, stando ben saldi sulle nostre sponde sicure. Tutt’al più per tacitare ogni possibile senso di colpa ci diremo che lì in mezzo ci sono terroristi pronti a derubarci e ucciderci.
E come non bastasse trattiamo in modo diverso gli honduregni, che hanno un leader che li guida: Bartolo Fuentes, e la chiesa che li accoglie lungo strada e li fa dormire in scuole e chiese (forse perché sono tutti cristiani?), dai “poverazzi” dalla pelle scura che arrivano sui barconi dall’Africa (forse perché sono in gran parte musulmani?) e sono arrivati in ben più di 7mila. Riusciamo a fare una graduatoria perfino fra i derelitti…
Questi popoli in marcia per il mondo, quali che siano, lasciano dietro di sé una scia di dolore, di feriti e di morti che è impossibile ignorare. Inseguono un sogno, inconsapevoli che quel sogno non esiste, che per esempio anche qui in Italia c’è povertà e disperazione, che c’è gente che fruga negli scarti della verdura e della frutta nei mercati, che ci sono pensionati che fanno la fila alla mensa della Caritas, che i nostri giovani non hanno lavoro, né prospettive, né futuro. Che una scellerata sequenza di governi incapaci e corrotti hanno distrutto la sanità pubblica, la scuola pubblica, l’Università pubblica, a favore di organizzazioni private spesso assai meno competenti; che l’incuria ha distrutto paesaggi meravigliosi e lasciato interi territori e beni artistici e archeologici unici a disfarsi sotto la pioggia; che nessuno si occupa della manuntenzione di ponti e strade se non dopo tragici eventi; che ci sono ben 4 organizzazioni mafiose nel sud della Penisola con le quali sembra che lo Stato abbia stipulato accordi, lo stesso Stato accusato delle stragi di marca fascista degli anni 70….
E ci sarebbe ancora un elenco lungo due braccia: le persone che vogliono venire qui non lo sanno che siamo alla frutta e che non va molto meglio non solo in Europa, ma anche negli Stati Uniti, dove un numero incredibile di persone ha perso il lavoro e anche la casa per il crack delle banche e intere famiglie dormono in macchine (o in roulotte, camper, rimorchi, furgoni, pick-up, etc.) in parcheggi organizzati apposta. A questo proposito nel 2017 è uscito un libro di Jessica Bruder Nomadland: Surviving America in the Twenty-First Century ( La terra dei nomadi: come sopravvivere in America nel ventunesimo secolo) nel quale racconta “ Il mio primo incontro con un gruppo di “nuovi nomadi” è avvenuto nel 2013, nel parcheggio per camper del deserto Rose, a Fernley, in Nevada. Era abitato da appartenenti al mondo del “precariato”: lavoratori temporanei che svolgevano lavori di breve durata con stipendi bassi. I suoi cittadini erano girovaghi a tempo pieno, che dimoravano in camper o veicoli simili, anche se almeno uno di loro aveva solo una tenda in cui vivere. Molti avevano più di 60 o 70 anni, vicini o già nel mezzo della tradizionale età della pensione. La maggior parte non poteva permettersi di smettere di lavorare – o di pagare l’affitto…..”
Sono ditte come Amazon, che pescano la manodopera proprio fra questi disperati.
Dunque anche numerosi abitanti “autoctoni” degli stati USA vivono e dormono per strada e si muovono con le loro minuscole case mobili spostandosi per il paese in cerca di lavoro. Si autodefiniscono “workampers” (dall’unione della parola work – lavoro – e camper ) ed è qualcosa che non si era più visto in America, dai tempi della Grande Depressione.
Sulla povertà in America è illuminante anche il libro di Elisabetta Grande ( che insegna Sistemi Giuridici comparati all’Università del Piemonte Orientale) uscito anch’esso l’anno scorso “Guai ai Poveri. La faccia triste dell’America", che affronta la storia di 40 anni di crescita inesorabile della povertà più crudele, nel paese più ricco del mondo. “La popolazione dei senzatetto è oggi formata in grande misura da famiglie e la categoria di homeless in maggior crescita è quella dei bambini”. Il libro dice che sono 2 milioni e mezzo i bambini senzatetto in tenera età: 1 ogni 30 bambini americani, in aumento dal 2007 del 64%. I poveri sono 1/3 dell’intera popolazione USA e sono in costante aumento.
Stiamo parlando dunque di un paese che dietro il leggendario “sogno americano” e il “diritto alla ricerca della felicità” riserva, nelle pieghe del quotidiano, non poche sorprese. Questa disperazione occultata e negata si trasforma spesso in violenza e sfocia altrettanto spesso in sparatorie e massacri nelle scuole, anche per via delle armi facili, favorite dalla politica demenziale di un presidente più che mediocre e pericolosamente narcisista e determinato a costruire muri per preservare gli USA dai migranti, come se lui non fosse figlio e nipote di migranti tedeschi.
Detto questo è ovvio che è meglio vivere qui o in America, piuttosto che in Honduras o in alcuni stati dell’ Africa, ma se questi fratelli in marcia, se questi peoples on the road, riusciranno a entrare qui o negli USA avranno una grande disillusione: non esiste nessun Eldorado, nessun Bengodi, se non per i ricchi, potenti ed egoisti.
La domanda che dobbiamo porci ora non è “come arginare il fenomeno migratorio”, ma semplicemente e umanamente “come possiamo aiutarli”?
Non ci sono poi tante risposte: possiamo accoglierli e dividere con loro quel poco che abbiamo, ma anche quel moltissimo che ci manca, oppure possiamo aiutarli a restare nel loro paese. Mi spiego meglio: la seconda ipotesi è certamente quella più complessa e faticosa, ma è anche quella che potrebbe essere la più sensata e produttiva. Solo che questo presupporrebbe che li aiutassimo a far fruttare le loro risorse ( invece che appropriarcene) e a creare posti di lavoro e infrastrutture che aiutassero la nascita e la crescita di piccole e medie imprese. Vorrebbe dire aiutarli a restare nel proprio paese, non come disperati sotto il tallone di delinquenti, ma liberi, creativi e consapevoli. Benissimo, ma perché non abbiamo pensato di farlo anche qui da noi, per noi stessi?? Eehhh, la cosa non è semplice, proprio per niente….
Nel frattempo ci siamo dimenticati di quando eravamo noi - carichi di figli, di valigie di cartone e di sogni - sulle navi della speranza, come testimonia questa foto del 1906. Sarebbe importante che ce lo ricordassimo sempre.
Barbara Fois
Le prime due immagini di questo articolo sono tratte dal web.
La terza foto è della fotografa americana Dorothea Lange, che
ha documentato, negli anni ’30, la Grande Depressione in USA.
La quarta è del 1906