Lavoro salariato e capitale, Salario, prezzo e profitto sono titoli di due libretti di Marx. Chi non riusciva a leggere Il Capitale colmava la lacuna con queste letture brevi, dense, incisive. Nel primo titolo c’è in primo piano lo scontro dualistico di classe, nel secondo il suo aspetto dentro il mercato. L’atmosfera generale dei due testi è la dimensione ottocentesca del lavoro industriale: vaste masse operaie in fabbrica (con l’amplio complemento del lavoro femminile e infantile), la disciplina ferrea del lavoro, l’orario di lavoro lunghissimo, la sua nocività senza controllo, il conflitto con le macchine, la povertà generale, la ricchezza dei pochi. La povertà generale come mezzo per obbligare allo sfruttamento. Il mercato del lavoro per selezionare quello più disponibile a sottomettersi.
E tuttavia, in quelle condizioni difficili si è formato l’orgoglio della classe lavoratrice. Fenomeno, assai più che psicologico, sociale. Il suo fondamento non è l’attribuzione di valore al lavoro in quanto tale (obbligato, faticoso, sporco, nocivo) ma la sua forza collettiva, la sua capacità di lotta in comune. Le braccia valgono non solo per ciò che sanno fare ma anche quando si negano al fare con lo sciopero o si esercitano con astuzia nel sabotaggio. Esiste senza dubbio, nell’operaio qualificato, l’orgoglio del lavoro ben fatto ma proprio perché è ben fatto pretende il giusto riconoscimento (l’industria non è solo macchinari: l’industria siamo noi); e ciò culmina nella necessità di salari più alti di quanto l’industria conceda. Ma anche l’operaio non qualificato trae dalla sua condizione di massa sfruttata la sua forza collettiva. La grande fabbrica moderna dipende dalla collaborazione attiva dell’operaio massa non qualificato. Se la disciplina del lavoro non è rimunerata con salario adeguato i tempi di produzione saltano. Anche qui, e forse soprattutto qui appare in evidenza che il lavoro sfruttato non si compensa con la retorica sulla nobiltà del lavoro che affranca l’uomo ma con un salario che ripaghi in pieno la fatica e la monotonia.
Ma tutto ciò è ormai passato. Nel nostro mondo la grande fabbrica è scomparsa da quando i padroni hanno capito che la lotta operaia intaccava o impediva la certezza del profitto. E’ migrata nei mercati del lavoro a basso costo, dove il suo destino evolutivo si rinnoverà in modi che sarà interessante seguire e studiare. Gli operai non sono scomparsi ma la loro presenza è distribuita con sapienza padronale in proporzioni spaziali che rendono ardua la manifestazione della forza collettiva. La frammentazione dei cicli produttivi, la moltiplicazione della fabbrica diffusa si accompagnano a una espansione crescente del lavoro precario, temporaneo e addirittura gratuito in molti comparti economici. Studiosi attenti sempre più colgono in questo generale mutamento la diffusione imprevista di una nuova condizione operaia: non concentrata nella fabbrica ma al contrario diffusa nell’intera società e nelle sue più varie stratificazioni. Una nuova classe operaia per ora inconsapevole di esserlo. I singoli soggetti colgono bene il peso del loro sfruttamento ma la totalità è ben poco cosciente della propria subalternità collettiva. Così, nella nostra economia avanzata, che esibisce comparti avveniristici, il ritratto del lavoro sfruttato trova oggi una rappresentazione sorprendente nelle pattuglie dei rider che sfrecciano in bicicletta (magari elettrica) nelle consegne a domicilio! Alla moderna folla di gente che si arrabatta in lavori precari e mal pagati si può parlare di nobiltà del lavoro?
Articolo 4 della Costituzione: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Questo articolo appare, come e più di altri, espressivo di una volontà costituzionale non realizzata. Il commento richiederebbe pagine. Qui ci si limita a due soli rilievi. E’ assai dubbio che la Repubblica abbia davvero promosso e soprattutto ora promuova le condizioni per rendere effettivo quel diritto. Ma è ancora più certo che il dovere di svolgere un lavoro è per una vasta platea sociale impossibile “secondo le proprie possibilità e la propria scelta”. Quali possibilità, quale scelta? Una moltitudine è obbligata a fare lavori che se solo potesse eviterebbe con cura. Quanti hanno la fortuna indicibile di dedicarsi a un lavoro di propria scelta? L’antico lavoro industriale ha nobilitato l’uomo meno con la sua qualità e assai di più con la possibilità della lotta collettiva. Quale nobiltà conferisce un lavoro senza qualità e senza facoltà di lotta?